Della rivolta di Masaniello e delle sue conseguenze (1647-1656)

Estratto da: Candida-Gonzaga, Memorie delle famiglie nobili, Napoli 1836

Lo stato delle Province Meridionali erasi ridotto anormale sotto la tristissima dominazione Spagnuola, essendo esse lasciate a discrezione di un uomo, il quale, e perchè non indigeno, e perchè rivestito del mandato d’impoverire queste nostre province per aumentare le entrate della Spagna, aggravava la posizione della classe meno agiata dei cittadini.

Governava qual Viceré del Regno di Napoli D. Rodrigo Ponce de Leon Duca d’Arcos, il quale come tutti i suoi predecessori, per arricchire la propria famiglia e farsi merito col suo Re, dichiarò che per far fronte alle guerre di Catalogna e di Fiandra, dovevano le nostre province fare un volontario donativo di un milione e mezzo di ducati. Furono convocati i nobili ed il popolo i quali, visto che sui commestibili le gabelle erano enorm i, stabilirono una tassa sui tabacchi, e siccome non si raggiungeva la cifra pretesa, fu proposto da D. Antonio Miroballo, nobile del Seggio di Portanova, e da Antonio de Angelis, Eletto del popolo, la gabella sulle frutta , nominando Commissario per tale esazione D. Carlo Brancaccio. Questi, vedendo che tale imposta nuoceva esclusivamente al basso popolo, emanò un ordine per evitare questioni, regolando le esazioni in modo da renderle il meno penose. Alcuni nobili intanto ed alcune Case di Carità, credendo che questa gabella poteva dare degli utili vistosi, proposero al Viceré di prenderla in appalto. D. Carlo Spinelli fratello del Principe di Tarsia vi impiegò centomila scudi; il Monte di Pietà cinquantamila; la Casa dell’Annunziata settantamila, ed altri fino alla somma di duecentosettantamila scudi.

Il popolo dunque, che con animo mal disposto avea appreso tale nuova imposta, fu oltremodo indispettito per cotesto appalto, vedendosi così troncata ogni via di potere in certo modo eludere qualsiasi vigilanza. Avvenne frattanto che il Viceré portatosi a visitare la Chiesa del Carmine, fu attorniato da più centinaia di popolani, i quali gridando contro la nuova gabella, gli fecero talmente paura che egli, promettendo di levarla , entrò in Chiesa ed uscito per una porta secondaria, si ridusse per mare al Regio palazzo, non volendo attraversare la città. Allora, trovatosi al coperto, non volendo mantenere la promessa uscitagli di bocca per semplice paura, chiamò a se alcuni signori, appaltatori della gabella, facendosi pagare anticipatamente scudi 600 mila.

Gli appaltatori intanto, per meglio sorvegliare l’esazione del Dazio, fabbricarono una casa al Mercato, la quale dopo pochi giorni fu bruciata dal popolo, guidato da Andrea Nauclerio, Eletto, e da Giuseppe Fattorusso, Peppe Palumbo e Micaro Perrone. Infinite preghiere furono rivolte al Duca d’Arcos per rimuovere tale gravezza, ma coloro che ne aveano comprato il dritto opposero una viva resistenza, e specialmente lo Spinelli, il quale avea donato quindicimila ducati al Segretario del Viceré, acciò mantenesse nell’animo di lui tale decisione irremovibile.

Il popolo inviò il Nauclerio al Viceré a pregarlo di nuovo e fargli sapere che tale gravezza non l’avrebbe accettata a capo chino come sempre, e che si preparava a serii disordini. Seguitava intanto l’esazione delle gabelle, e ad ogni momento si veniva alle mani coi gabellieri. All’odio che il popolo nudriva per gli Spagnuoli, si aggiunse ancora il fatto dell’arresto di un tale che apparteneva alla giurisdizione ecclesiastica, perlochè il Nunzio, offeso di tal violazione di dritto fece affiggere i Cedoloni di censura al suo palazzo contro coloro i quali aveano proceduto a tale atto. - Era costume in Napoli che nella ricorrenza della festività della Madonna del Carmine ai 16 luglio, i popolani facessero un castello di legno nella gran piazza del Mercato , e che una compagnia di giovanotti, vestita in modo bizzarro, desse 1’assalto a questa fortezza difesa da un’altra compagnia; tutti erano provveduti di canne, le quali faceano le veci di alabarde, da un Frate Carmelitano a nome Fra Savino. Fabbricato il castello fu nominato capo degli assaltanti un giovane pescivendolo di venti anni appena, a nome Maso Aniello, il quale, per essere dominato dal vizio del giuoco, spesso non potea comprare il pesce affin di rivenderlo, ed era costretto per conseguenza di limitarsi ad aiutare gli altri marinari nel costruire gli ordegni della pesca, per menare innanzi la vita. Spesso pensieroso, nei momenti di allegrezza diceva dover egli far levare le gravezze che opprimevano il popolo; la qual cosa movea il riso a quanti lo conoscevano. Il Fra Savino, scorgendo in lui un animo nobile e coraggioso, non cessava ogni qual volta gli avveniva di vederlo, di spingerlo ad oprare qualche cosa. Nello stesso tempo era stato liberato dalle carceri di Spagna Giulio Genoino, già Eletto del popolo, ch’era stato incarcerato per aver seguito le parti del Viceré Duca d’Ossuna, il quale tentò di separare le nostre province dalla Spagna. Il Genoino avendo saputo che Masaniello era stato creato Capitano della Compagnia, lo chiamò a se, e per molti giorni gli parlò caldamente infervorandolo a muovere il popolo nel dì della festa. - Venuta la domenica 7 di luglio, i venditori di frutta, come al solito, giunti al Mercato, cominciarono a litigare coi gabellieri, perchè la gabella fosse pagata dai compratori, sicché l’Eletto ad evitar questioni fece ribassare la gabella di due grana e mezzo a cantaio; ma un tale di Pozzuoli a nome Tommaso, replicò con bruschi modi allo Eletto di non volere pagar niente, sicché trovandosi presente il Capitano di Giustizia, tal Barbaro, gli diede un solennissimo schiaffo, e Tommaso, per esser di parola, preso il suo cesto di fichi lo buttò per terra; sicché i ragazzi colà accorsi si diedero a mangiarli, ed a buttarli l’uno contro l’altro, e protraendo lo scherzo, ne fecero una grandinata all’Eletto ed al Capitano. Poscia ai fichi successero i sassi, e l’Eletto ed il Capitano furono obbligati a fuggire per non lasciarvi la vita.

I popolani intanto si portarono alla casa dove si esigeva la gabella, e bruciati i registri, e presi a sassate gl’impiegati, tardi accorgendosi di aver fatto un passo falso, per tema del castigo, si recarono al palazzo del Principe di Bisognano, il quale era molto amato dal popolo, e lo indussero a scendere, pregandolo di difenderli e di non far loro pagare la gabella sulle frutta. Montato a cavallo il Principe di Bisignano, si portò dal Viceré, dal quale, col dimostrar l’imminente pericolo d’una rivolta, ottenne l’abolizione della detta gabella. Andò quindi al Mercato, la qual Piazza era gremita di gente, ed entrato nella Chiesa del Carmine e salito sul pulpito, annunziò al popolo la grazia ricevuta. Ma quello vedendosi così presto esaudito, domandò che fosse levata anche la gabella sulla farina, perlochè il Sanseverino col Principe di Satinano recossi di nuovo dal Viceré. In tal frattempo la turba si diede a bruciare le case della gabella sulla farina, e quella del Cassiere di essa Donato de Bellis, ed incitato da un siciliano, che era stato uno dei caporioni della sollevazione di Sicilia, andò al real palazzo, dove disarmati gli Svizzeri e gli Spagnuoli, il palazzo fu invaso da numeroso popolo. Il Viceré spaventato dall'imminente pericolo volea salvarsi nel Castelnuovo, ma la plebe, temendo che il Viceré gli fosse sfuggito , avea di già occupata quella via; sicché precluso ogni passaggio pel quale il Viceré potesse trovarsi una via di salvezza, e sicuro di essere massacrato, abbracciati i suoi figli, si presentò al popolo dichiarando di levare la gabella, ed il popolo per tutta risposta lo colmò di villanie, cui, seguendo delle minacce, i signori di Corte fecero sì, che il Viceré per una scala segreta scendesse in uno dei cortili, e montato nella carrozza del Conte di Conversano, ed accompagnato dal Principe di Montesarchio d’Avalos, uscisse inosservato. Il popolo come fu fatto accorto della fuga dell’autore dei suoi mali, cominciò a rompere tutto quanto vi era nel regio palazzo, gettando il Baldacchino Reale e gli altri distintivi della dignità regia nella strada. Pertanto il viceré mentre scendea dalla carrozza per intromettersi nel Monastero di S. Luigi di Palazzo, fu riconosciuto dalla plebe ed ebbe a soffrire mille ingiurie. Il quel mentre il Cardinale Ascanio Filomarino, trovandosi a passare per quel luogo tentò di frenare il popolo, ma inutilmente, perchè quello, esaltato per tutte le cose che non gli andavano a sangue, si portò in tutte le carceri della Città, e battendo le guardie mise fuori gran numero di uomini facinorosi, i quali ruppero e bruciarono quanto loro si parava d’innanzi, e ciò fino al cader della notte, non ristandosi il popolo di provvedersi di armi. Al nuovo dì (8 luglio) erano al numero di 14 mila gli armati sotto il comando di Masaniello, il quale ordinò, pena la vita, che chiunque era atto alle armi scendesse in Piazza. Il Viceré, sperando di poter frenare l’impeto della rivolta, mandò al popolo il Principe di Bisignano, dicendo che avrebbe esaudite le sue domande, levando le gabelle e pubblicando un indulto per tutto. Ma il Genoino, per essere stato molti anni nelle pubbliche cose, consigliò il popolo di domandare la riconferma dei privilegi alla città concessi da Carlo V, e per ispaventare maggiormente gli spagnuoli, fu organizzata una compagnia d’incendiarii, la quale avea l’incarico di bruciare le case e le robe dei Ministri Spagnuoli, e dei cittadini che si erano fatti ricchi con le esazioni delle gabelle. Furono incendiate le case di Geronimo Letizia affittatore del Dazio sulla farina, di Antonio de Angelis Eletto del popolo, sempre ligio ai voleri del Viceré, di D. Antonio Miroballo Regio Consigliere, il quale nelle deliberazioni votava sempre contro il popolo, e di Andrea Nauclerio, Eletto del popolo , odiato pei suoi modi superbi, poco confacenti alla sua carica.

Masaniello, mentre tali cose succedeano per Napoli, avea fatto formare il suo trono presso il Mercato, servendosi di un palco di legno che era destinato ai giuochi di alcuni saltimbanchi. Si portò da lui un tal prete D. Mercurio Cimmino, maestro di Casa del Marchese di Brienza Caracciolo, e compare di Masaniello, che egli avea conosciuto in occasione della sottrazione al pagamento del dazio di un sacco di formaggio del detto Marchese. Masaniello lo richiese dei suoi consigli, e D. Mercurio gli disse, dover essere prima sua cura quella di conquistare il Castello del Carmine, prendere il danaro dai Banchi per pagare gli armati e punire i ladri; ma vedendo che Masaniello tentennava, non essendo tali i consigli del Genoino, se ne allontanò, nè volle mai più parlargli - Il Viceré, visto che le ostilità non finivano, mise ogni sua cura nel tener divisa la nobiltà dal popolo. Fu liberato dalle carceri il Duca di Maddaloni Carafa, colà rinchiuso per delitti commessi, e comechè fosse uomo energico ed arrischiato, fu dal Viceré prescelto quale strumento per sedare la rivolta.

Furono a lui consegnate delle carte, dicendo esser quelli i Privilegi accordati da Carlo V, per presentarli al popolo, e nel contempo fu sparsa la voce che erano false, e che i nobili voleano burlare il popolo per indurlo a quietarsi. Giunse il Maddaloni al Mercato, e letto i Privilegi, il popolo corniciò a gridare quelli esser falsi, dovendo essere scritti a lettere d’oro, sicché il Duca ritornato al palazzo, fu inviato al popolo con altre carte il Prior della Roccella Carafa, il quale poco mancò non vi lasciasse la vita, adducendo il popolo essere anche false le carte portate da lui.

Ordinò Masaniello in questo stesso giorno di prendersi le artiglierie che si conservavano in S. Lorenzo, le quali furono aumentate di tre pezzi di cannone presi da alcuni marinari del Molo piccolo da un legno di guerra che stava in riattazione. Nel 9 Luglio fu mandato di nuovo il Duca di Maddaloni alla Piazza del Mercato con altre carte, e la plebe, indispettita di vedersi così raggirata, cominciò a chiamarlo traditore, e Masaniello avvicinatosi a lui lo strappò giù dal cavallo, facendolo rinchiudere nel Convento del Carmine , d’ onde essendo liberato da alcuni suoi conoscenti, fuggì nella notte alle sue terre per riunire gente contro di Masaniello. Il Filomarino intanto non cessava di ricercare tutt’i modi onde por fine alla sollevazione, ed entrato nella Chiesa del Carmine, accompagnato dal Principe della Rocca e dal Duca di Perdifumo suoi fratelli, e dal Principe di Cellamare Giudice, fece chiamare Masaniello, il quale scalzo, coi calzoni di tela e la camicia rimboccata su per le braccia ed un berretto rosso in testa andò a baciargli la manó. Allora entrati in sacristia, il Cardinale gli diede una copia dei Privilegi di Carlo V a lui mandati dal Viceré, e fatto chiamare il Genoino ed il Teologo, cominciarono a trattare la capitolazione.

Saputo il Cardinale di un notamente di Spagnuoli le cui case doveano essere incendiate, se lo fece dare da Masaniello, facendo avvisar quelli segretamente acciò si salvassero. Volle Masaniello che il Principe della Rocca facesse da Grassiere della Città, ed abbracciatolo e baciatolo, gli disse essere uomo dabbene, e che rifiutando tale carica gli avrebbe fatto mozzare il capo; più creò Eletto del popolo Francesco Arpaia.

La turba intanto non si stava con le mani alla cintola. Arse la casa di Alfonso Valenzano Attuario della gabella sulla farina, e poi quella del Duca di Caivano Giovannangelo Barrile Segretario del Regno, che in tale incendio ebbe un danno di 180 mila scudi, essendogli ancora uccisi una quantità di svariati animali tra i quali un leone. Fu preda delle fiamme tutto l’archivio della Cancelleria che era presso di lui, ed ebbe il dolore di veder consumato dal fuoco il suo primogenito Francesco, perchè avea tentato sottrarre all’incendio alcune sue carte. Il popolo arse ancora la casa e le robe di Cesare Lanzaro fittatore delle gabelle, il quale da facchino di Dogana erasi messo a capo di una vistosa ricchezza, dei cui figli, il primo avea ottenuto il Ducato di Ceglie, ed il secondo il titolo di Marchese. Furono bruciate le case di Andrea Basile ed Andrea de Florio, di Bartolomeo Balsamo e Giuseppe Sportella adattatori delle gabelle del sale, e quella di Giovanni Zavaglios, il quale venuto quasi che nudo da Spagna, erasi guadagnato una fortuna di 3oo mila ducati, ed il titolo di Duca di Ostuni. La plebaglia scatenata non si ristette dal comunicare il fuoco alla casa di certi signori Pallavicino, uccidendo loro gli animali tutti a moschettate, perchè aveano l’arrendamento sulle gabelle.

Il Viceré vedendo che niun modo di accomodamento potea effettuimi fece chiamare i soldati che si trovavano nei paesi vicini , per apparecchiarsi a reprimere la rivolta, e saputosi da Masaniello che venivano dugento soldati dalla Porta Costantinopoli, attorniatili, li fece tutti disarmare.

Assaltò il popolo il Convento di S. Lorenzo in cui, bruciata una porta, entrò disarmando gli Spagnuoli che vi stavano a guardia , e si impossessò di trenta pezzi d’artiglieria che situò in varii punti della città. Saputosi intanto venire da Pozzuoli 600 Alemanni, il popolo, andato loro incontro, li disarmò.

Frattanto il Cardinale Filomarino stabiliva alcuni patti per la capitolazione; ma fattili leggere al popolo, questi li rifiutò, volendo che le Castella fossero occupate dai rivoltosi, e tanto più crebbe il malumore e la stizza, quando si seppe che il Viceré avea dato incarico a due popolani, Domenico Perrone ed Antonio Grasso, di uccidere Masaniello. Tuttociò avveniva nel dì 9 Luglio. Nel dì seguente mandò Masaniello dal Principe della Rocca, acciò si fosse messo in esercizio del suo ufficio di Grassiere , avendo ordinato ai suoi mandatarii di bruciargli la casa se per caso rifiutasse, per la qual cosa il Principe fu costretto ad accettare.

Ferito a morte quell’Antonio Grasso, che avrebbe dovuto uccidere Masaniello, prima di morire confessò il suo mandato e svelò che il Duca di Maddaloni avea fatto minare varii punti della Piazza, e che avea riunito buon numero di gente in Maddaloni ed Arienzo, aiutato da suo fratello , D. Giuseppe Carafa, di anni 3o, il quale era accusato di aver fatto assassinare il Principe di Sansa ed il suo figlio. Confessò pure che questi armati erano stati affidati al comando del Perrone e di Nicola Ametrano di Massalubrense, uomo infame e perverso, capo di una comitiva di ladri, il quale nel dì 6 Luglio avea dato fuoco ad un galeone carico di 700 cantaia di polvere che dal Viceré era mandato in Ispagna - Intanto il Cardinale, dopo una notte di studio , pubblicò i capitoli per la pace i quali non furono accettati dal popolo - Seguitava frattanto questo ad ardere le case, tra le quali quelle di Andrea Boravaglia e di Giov. Battista Buzzacarrino, genovese, affìttatore delle gabelle, il quale, per essere pure appaltatore delle polveriere, avea fatto bagnare le polveri per tema non fossero capitate in mano del popolo, e furono arse eziandio le case delle famiglie Odorisio e de Iuliis - La plebe, venuta a consiglio, decise di sorprendere i seguaci del Maddaloni, di cui in effetti ne prese trecento e troncò loro le teste che furono portate in giro per la città. Contemporaneamente furono scoperti i barili di polvere i quali erano stati intromessi nei corsi sotterranei della Piazza.

Ordinò Masaniello che fossero ammazzati tutti i preti di sottana corta. E qui giova osservare che gran numero di pubblici assassini per isfuggire alla giustizia vestivano quell’abito, per lo che erano comunemente conosciuti dal popolo per gente perversa.

D. Giuseppe Carafa il quale, coi suoi dipendenti, stava nella Piazza del Mercato, vedendosi a mal partito, si ricoverò nel monastero di S. Maria la Nuova, dove si portarono i popolani in gran numero, volendo Masaniello averlo nelle mani ad ogni costo.

Fu circondato il Monastero, ed il Carafa, per un cammino sotterraneo, riuscì in una casetta abitata da alcune meretrici, ed incontratosi con una di esse e regalatala di molte monete d’oro, si fece rinchiudere in uno stanzino a pian terreno, facendo ammonticchiare innanzi alla porta un gran numero di pietre che colà trovavansi, stando quella casa in fabbrica. Venuta tal cosa a conoscenza delle compagne di quella donna, la quale si negò di far porzione ad esse dell’oro, fu tutto svelato ai soldati del popolo, che, sgombrata dalle pietre l’entrata della stanzetta, strapparono fuori D. Giuseppe , il quale essendo uomo molto ardimentoso appena uscito disse: Sapete che io sono D . Beppe Carafa ? ed i rivoltosi gli risposero di andar proprio in cerca di lui, e chiamato un macellaio, tal Michele de Sanctis, gli fecero mozzare la testa , che portarono a Masaniello. Fu decretato dallo stesso che il corpo del Carafa fosse rinchiuso in una gabbia di ferro e messo sulla porta S. Gennaro ; che fosse ucciso il Duca di Maddaloni e fossero bruciati i suoi palazzi; che fosse mozzata la testa a Carlo Spinelli e fosse arso il suo palazzo, per avere avuto quest’ ultimo molta parte nello appalto delle gabelle; ma tal sentenza fu annullata ad istanza del Cardinale Filomarino, il quale esercitava sull’animo del pescatore, per buona sorte, autorevole impero.

Fu incendiata la casa di Girolamo Naccarella da Salerno, e quelle del suo genero Andrea Capano nobile di Nido, e del Principe Rocco. Fu ordinato da Masaniello di sospendersi gli incendi; gli assassini e le stragi, per organizzar meglio le squadre armate, tra le quali eranvene parecchie di donne. Giunsero dalle circonvicine terre in Napoli molti drappelli di armati in aiuto degl’insorti, come, ad esempio, S. Antimo mandò 800 uomini bene ordinati sotto il comando di Domenico Pasquale, vecchio soldato delle guerre di Fiandra, tutti seguiti da una turba di donne e fanciulli munite di fascine impeciate, atte a propagare rapidamente un incendio.

Nei giorno 11 Luglio, avendo dato ordine Masaniello che niuno uscisse dalla città, fu arrestato presso una delle porte di essa il Marchese di Cervinara Caracciolo, che fuggiva con alcuni nobili Sorrentini, lo che saputosi dalla sua ava Marchesa di S. Eramo, questa corse dal Filomarino, il quale ottenne da Masaniello la liberazione di quei signori.

Entrato il Cardinale nella Chiesa del Carmine presentò le capitolazioni accettate dal Viceré. Il popolo trovatele giuste vi si uniformò, ringraziando il Cardinale di quanto avea fatto in suo vantaggio.

Tali cose assodate, Masaniello decise portarsi dal Viceré, e vestito di lamina d’argento, cavalcando una mula bianca ed accompagnato da numeroso popolo, s’incamminò verso il Palazzo Reale, preceduto da banditore, il quale dando fiato alla tromba, dopo ripetuti squilli, gridava: Viva il Popolo, viva il Re di Spagna, viva Masaniello d’Amalfi, al che questi ordinò che non si mettesse il suo nome dopo quello del Re di Spagna, non meritando un tanto onore. Giunto al real palazzo, e salito nelle stanze del Viceré, dal quale fu ricevuto con immensa cortesia, Masaniello lo trattò da suo pari ed usciti entrambi al balcone, furono salutati con evviva fragorosi.

Nel dipartirsi dal palazzo reale, volle il Viceré fargli dono di una magnifica collana d’oro, ma Masaniello ricusandola, disse non confarsi quella alla sua condizione, e che dopo aver provveduto al benessere del suo popolo, sarebbe ritornato al suo mestiere.

Nel dì seguente furono da Masaniello assegnati i prezzi alle vettovaglie e dati severissimi ordini circa la grascia della città. Il popolo si portò sotto la casa del Visitatore Generale di Spagna, D. Giovanni Alarion Ponce de Leon, il quale era uomo poco onesto, ed erasi acquistato una vistosa fortuna col far mercato del suo potere; ma, avvertito in tempo, potè salvare la vita e quanto di meglio possedeva. Mentre Masaniello stava nel Convento del Carmine andarono da lui due servi del Viceré a portargli un mazzetto di fiori, il quale, da lui odorato ripetute volte, fu visto stralunare gli occhi e delirare come se fosse preso da febbre.

Le cortesie del Viceré per Masaniello si moltiplicarono, tanto che nel giorno appresso gli mandò un cavallo morello bardato magnificamente, acciò si fosse portato da lui. Egli vi andò, dopo di aver ottenuta la benedizione dal Cardinale, e fissati i patti della capitolazione, fu organizzata una maestosa cavalcata per solennizzare la pace. Precedeva Masaniello portando nelle mani le capitolazioni firmate dal Viceré, dal Consiglio Collaterale e dal Reggente, gridando al popolo che la città avea ricevuti i Privilegi accordati da Carlo V.

Seguiva il Viceré in una carrozza tirata da sei cavalli e circondato dai suoi.

Giunti al Duomo Masaniello diede segni evidenti di pazzia, e nel mentre si leggevano i Capitoli, andava dal Cardinale al Viceré, baciandoli entrambi e ringraziandoli di quanto si concedeva ai suoi concittadini, tanto che, giunto alla chiusura di essi, ove era chiamato col titolo di Signore, si pose a piangere dirottamente ed a strapparsi gli abiti ricamati, esclamando non essere altro che un vile pescivendolo non degno neppure di essere ricordato.

Furono i capitoli firmati dal Viceré e dai seguenti signori: Reggente Mattia di Casanatte, Reggente Ettore Capecelatro, Reggente Diego Bernardo Zufia, Reggente Antonio Caracciolo Marchese di S. Sebastiano, il Principe di Satriano, il Principe di Cellamare Giudice, Giov. Tommaso Blanch Marchese dell’Oliveto, Francesco Toraldo Principe di Massalubrense, Pompeo de Gennaro Duca di Belforte, Orazio Capece Galeota Principe di Monteleone, Carlo della Gatta, Luzio Caracciolo Duca di S. Vito, Achille Minutolo Duca del Sasso, Giov. Battista de Mari Duca di Assigliano, il Principe di Caracusa Giuseppe Mariconda, il Marchese di Torella, D. Loise Ponce de Leon e Donato Coppola Segretario.

Nel 14 Luglio, ordinò Masaniello che il popolo deponesse le armi. Non volle però lasciare il comando di esso, adducendo volere aspettare che i Capitoli fossero venuti approvati dalla Spagna, per la qual cosa il Viceré, per finirla una buona volta, lo mandò ad invitare per un pranzo a Posilipo, dove fu avvelenato nel vino, del che chiaramente diede segno al suo ritorno in città per le pazzie stravagantissime a cui si abbandonò. Per evitare che il popolo comprendesse tal cosa, pensò il Viceré di stringere maggiormente amicizia con Masanielio e volle che la Viceregina mandasse una carrozza di Corte alla moglie di lui, affinchè si portasse nel palazzo reale, dove giunta, fu dal Capitano delle Guardie e da varii ufficiali accompagnata col capo scoperto fino alle sale di ricevimento. La Viceregina l’accolse con gentili parole, e quella in tutto il tempo che ebbero a conversare assieme, la trattò da sua pari ed accomiatandosi da lei volle per forza baciarla, cosa a cui , con molta ritrosia , dovette piegarsi la dama altera.

L’indomani Masaniello ordinò la demolizione di alcune case presso il largo del Mercato, volendo colà costruire un magnifico palazzo per suo uso, e non vedendosi obbedito allo istante, ferì con un coltello che avea fra le mani molti cittadini, lagnandosi di un fuoco interno che lo facea molto soffrire, per cui andò a tuffarsi nelle acque del mare, donde a viva forza fu tratto a casa. Allora i Capitani del popolo supplicarono il Viceré di togliere il comando a quel mentecatto, ed il Duca d’Arcos, per poter vincere i seguaci di Masaniello, i quali ne avrebbero sostenuto valorosamente i dritti, fece armare più centinaia di cittadini ligi al Governo.

Il 16 luglio Masaniello diede ordine ad un certo Marco Vitale della Cava, ladro notissimo, di far saccheggiare molte case dei più ricchi cittadini, volendo far dono al Re Cattolico degli oggetti preziosi di quelli, ed egli intanto entrato nella Chiesa del Carmine e salito sul Pergamo, cominciò ad alta voce a dir cose prive di ragione, tra le quali l’annunzio della morte sua già avvenuta, a suo dire, e della inutilità delle sue fatiche. Disse ancora che tutto gli era stato contrario e che soffriva tanto per un ardente fuoco che lo consumava, sicché per estinguerlo, avea bevuto tant’acqua da non saper dove contenerla, e ciò dicendo, slacciatisi gli abiti e rimasto nudo, tentò di precipitarsi dal pulpito. Alcuni Frati, che colà si trovavano, lo presero a viva forza e lo portarono nel cortile del Convento, dove trovavansi Angelo Ardizzone, Andrea Rama, Salvatore e Carlo Cattaneo fornari, tutti comprati dal Viceré.

Costoro, mentre l’infelice marinaio andava barcollando per quello spiazzo, gli tirarono varie moschettate, finché Carlo Cattaneo, fattoglisi addosso, gli tagliò la testa che portò al Viceré. Contentissimo questi, credendo di aver già sedata la rivolta, mandò mille Spagnuoli a custodire la casa di Masaniello dove era depositata gran quantità di monete e di oggetti preziosi; sebbene una buona porzione ne venisse sottratta da un tal Pellegrino, Capitano di truppa, fratello del Vescovo di Capri e figliuolo d’un rivenditore di masserizie usate - Fu pubblicato dal Viceré, per far cessare ogni specie di rumore, un ben chiaro e lungo indulto per tutti quelli che aveano preso parte alla rivolta, sicché gran numero di tumultuanti, sicuri del fatto loro, se ne tornarono a casa, e così la città prese un aspetto più calmo. La qual cosa, vedutasi dalla nobiltà, che per tema di gravi disgrazie, era rimasta rinchiusa e nascosta, molti signori ebbero in mente di svignarsela da Napoli, per paura di ulteriori vicende. Tra questi fu D. Lucio Sanfelice figlio di Giovan Serio, il quale, volendo andarsene in Aversa, dove avea sue proprietà, e passando a cavallo per S. Lorenzo presso alcuni popolani che guardavano un cannone, domandò loro ridendo se fosse carico di crusca, al che quelli, per sua fortuna, non avendo armi da fuoco, gli fecero una scarica di pietre, e seguitando il Sanfelice ad insultare quanti trovava per la via, potè, in grazia delle buone gambe del suo cavallo aver salva la vita.

Tal fatto divulgatosi inasprì molto la plebe, sicché, passando per S. Lorenzo D. Francesco Toraldo Principe di Massalubrense e D. Achille Minutolo Duca del Sasso, il popolo raccontò loro l’insolenza del Sanfelice, e disse di voler la pace, ma non di dover tollerare una sfida. Tal cosa fu riferita al Viceré, il quale mandò alcuni ufficiali ad Aversa per arrestare il Sanfelice, volendo dare una soddisfazione al popolo onde amicarselo e renderlo obbediente. Il 17 Luglio il tumulto era abbastanza sedato ed i patti e le misure prese in vantaggio dei popolani nei momenti di paura, furono alquanto modificati. Ma poiché il pane che dovea esser fatto di once 40 il pezzo fu fatto di 33, la plebe, vedendosi in certo modo canzonata, riprese le armi, e dati alle fiamme molti forni della città, si portò dal Viceré col pane sulle picche. Questi diede all’uopo delle disposizioni, e credendo far cosa grata alla plebe, dichiarò ribelle Lucio Sanfelice, mettendo sul suo capo una taglia di 10 mila ducati. Frattanto si portò in Aversa una compagnia di rivoltosi per aver nelle mani il Sanfelice, ch’era molto odiato, per essere stato tra quelli che aveano accordato il loro voto in danno del popolo. Ma colà giunti e non trovatolo, gli bruciarono la casa e gli animali delle sue masserie.

Il Viceré fece venire in Napoli 800 cavalli e 2000 valloni per meglio reprimere la rivolta, e volendo acquistarsi l’animo del Genoino, che dirigea segretamente il movimento, lo nominò Presidente di Camera.

Così il popolo perdette il suo consigliere, il quale per ambizione lo tradì, ed allora capì essere stato Masaniello vittima di un avvelenamento. Poi conscio di avere avuta poca gratitudine per quell’uomo, prese il suo corpo da un fosso ove era stato gettato e tolta la testa da una gabbia di ferro ove era stata rinchiusa, gli diede solenne sepoltura nel Convento del Carmine. Nello stesso giorno seppesi in Napoli che la città di Cosenza erasi rivoltata e che erano state bruciate molte case, tra le quali quella di Scipione Sambiase che era rimasto ucciso.

Nel 18 luglio gli Spagnuoli fecero spargere la voce che i nobili armavano i loro vassalli a danno dei popolani, per lo che questi ultimi decisero di bruciare loro le abitazioni, la qual cosa non ebbe luogo per le pratiche di onesti cittadini consapevoli della politica degli Spagnuoli. L’indomani il Viceré chiese la lista dei popolani armati d’arma da fuoco e si trovò che sommavano a 100 mila. Lo stesso giorno fu ammazzato Andrea Passaro , uno degli assassini di Masaniello. Dippiù, essendosi saputo, che i Gesuiti erano strettamente legati agli Spagnuoli, pei quali spendevano l’opera loro, fu pregato il Cardinale d’esortarli a badare ai Divini ufficii, se non voleano incorrere nello sdegno dei rivoltosi.

Nel 22 luglio i terrazzani di Melito vennero in Napoli per vendicarsi del loro feudatario Antonio Muscettola Regio Consigliere, il quale, perchè partigiano spietato degli Spagnuoli, godea l’impunità nel tormentare i suoi vassalli. Fu arsa e saccheggiata la sua casa nella quale trovavasi gran numero di processi, ed egli salvò a stento la vita ricoverandosi nel palazzo del Cardinale. Fu dallo stesso Cardinale salvata la vita all’architetto Fanzaga ch’era minacciato di morte, perchè non ponea mane ad un monumento nel quale bisognava scolpire i Capitoli trattati e conceduti dal Viceré. Il popolo frattanto continuava sempre a persistere nel farsi giustizia con le proprie mani, tanto che nel 23 luglio uno Spagnuolo, avendo ucciso un popolano con un colpo di moschetto, fu dallo stesso popolo arrestato e condotto dal Viceré, il quale ordinò lo si mettesse in carcere; ed essendo noto che gli Spagnuoli difficilmente venivano puniti si volle che la sentenza fosse pronunziata sul momento. Il Consigliere Navarrete, al quale era stata commessa, la pronunziò condannandolo a morte, sicché dovendo essere appiccato, fu condotto immantinenti sul luogo del supplizio dove, indugiando a recarvisi il boia, alcuni popolani supplirono a quella mancanza giustiziandolo.

Nel 24 luglio furono mandate le capitolazioni al Re di Spagna, ed il popolo in attesa dell’approvazione, volle mantenersi armato.

Il 25 luglio vennero in Napoli i terrazzani di Lusciano per bruciare la casa di Berardino Piscicello Barone di quella terra, ma ne furono distolti dai Capitani del popolo. Gli eccessi continuarono e nel dì seguente, saputosi che un fornaro non facea il pane del peso dovuto, fu ucciso e bruciata la sua casa.

Tutto ciò manteneva gli animi continuamente intimoriti e sospettosi. Giannettino Doria Generale delle Galere, la mattina del 28 luglio, udita la messa a S. Giorgio dei Genovesi, vedendo tutto il popolaccio armato, si lasciò sfuggire delle parole contro di esso, in seguito di che, per tema di essere ucciso salvò la vita con la fuga. Nel 31 luglio furono strozzati nelle carceri della Vicaria due popolani perchè tumultuanti, ed un frate, tal Agostino da Muro, uomo di mala vita, perchè portatore di armi proibite.

I funesti equivoci soliti ad avverarsi nelle sommosse, non mancarono; così Francesco Sabbato, Portoghese, Scrivano di Razione, essendo stato scambiato pel Duca di Caivano Spinelli, Vice-Cancelliere degli Studii, poco mancò non fosse ucciso dagli studenti, dai quali questi era odiato. Frattanto, come suole avvenire, la memoria di chi più non esiste facevasi sempre più cara, e quindi nel 6 agosto Angelo Ardizzone, Andrea Rota e Salvatore Cattaneo, uccisori di Masaniello, dovettero fuggire da Napoli per non essere massacrati dal popolo.

Nè mancarono gli atti di vera giustizia. Così fu tormentato ed ucciso un tal Francesco Severino della Cava, Scrivano di razione, perchè un suo nipote uscito allora dal Conservatorio di S. Onofrio, andato da lui per chiedergli conto della madre e della sorella delle quali da 12 anni non avea potuto saper notizia, e chiedendoglielo ad alta voce in una stanza terrena, ove avea trovato lo Zio, intese una voce da sotterra che gli dicea: « Figlio mio, figlio mio, sono viva ». Corse allora il giovanetto al Mercato, dove raccolti molti Capitani del popolo seguiti da gran numero di gente, e portatosi alla casa del Severino, e sfondata la stanza, trovò la madre e la sorella quasi nude, le quali da 12 anni erano state dall’infame fratello rinchiuse in quella buca, ricevendo da un piccolo spiraglio alquanto cibo per sostentarsi!

Nel 9 agosto fu arrestato per opera di D. Gregorio Carafa, Generale dei Teatini, D. Andrea Paolucci Teatino, emissario del partito francese, il quale scoperto dal Conte di Ognatte, Ambasciatore del Re Cattolico al Papa, e sottoposto ai tormenti, confessò molte cose di grave interesse. In rimunerazione di tal servigio ottenne il Carafa il Vescovato di Cassano.

II 14 agosto fu proposto al popolo di soccorrere il Re di Spagna con una forte somma. Tal cosa non fu accettata, adducendosi per ragione che il Governo non lo amava nè lo garentiva, imperocché, fìttando le gabelle, dava agio agli strozzini di sacrificare il popolo a loro piacimento.

Il 20 agosto fuvvi qualche cosa di più serio, perchè vennero pubblicati per le stampe alcuni capitoli nei quali non erano stati ritenuti i privilegi chiesti, e siccome si sparse la voce che il Genoino e l’Eletto del popolo aveano ciò organizzato, la plebe tutta in armi si portò dal Viceré. Gli Spagnuoli che erano a guardia del Real palazzo, vedendosi aggrediti da numerosa turba, fecero una scarica coi loro moschetti, ma il popolo dato loro addosso, molti ne ferì ed altri ne disarmò. Accorsero in aiuto della guardia due compagnie di Valloni, che furono anche disarmate dai rivoltosi, i quali, vieppiù inferociti per tale opposizione, piantarono alcuni cannoni sul colle di S. Lucia al Monte per far danno al palazzo Reale, tirando molte cannonate fino a due ore di notte, senza produrre gran male. Le teste degli Spagnuoli uccisi nella zuffa furono portate in giro per la città e fu preso il Torrione maggiore del Forte del Carmine. Ridestatesi dunque le turbolenze, queste, come era da supporsi crebbero, e nel 22 agosto una gran folla di rivoltosi recossi al quartiere di Pizzofalcone dove disarmò il terzo di fanteria comandato da D. Prospero Tuttavilla , uccidendo tutti gli spagnuoli che vi erano. Seguitò il popolo a tirare cannonate sul Castelnuovo e sul Regio Palazzo diretto da Andrea Polito, mercante di calce, creato Maestro di Campo, e questa volta il danno fu piuttosto grave. Allora il Viceré mandò a chiamare il Cardinale il quale fu inviato a sedare la rivolta, ma si misero gravi condizioni pel ristabilimento della pace; per esempio si domandò dai rivoltosi di avere in potere il Forte S. Elmo , che tutti gli Spagnuoli lasciassero Napoli, e, tra le altre pretensioni, si domandò che fossero destituiti tutti gli Uffìziali pubblici, meno il Reggente Caracciolo e D. Tommaso Caravita, i quali per essere onesti ed imparziali, erano generalmente tenuti in molta stima.

Il Cardinale andò dal Viceré, dal quale promettendosi tutto quello che veniva chiesto, subito si cominciò a sonare le campane a festa. Questa tregua però non dovea durare che pochi momenti, perchè dei soldati Spagnuoli, avendo ucciso alcuni popolani sulla Piazza del Palazzo Reale, il popolo si precipitò su di essi, e dopo averne fatto aspro governo, ne portò le teste infilzate sulle picche al grido di « ammazza, ammazza».

Vedendo il Viceré non esservi alcun mezzo di sedare la rivolta, diede ordine di sparare le artiglierie dei castelli; ma la plebe, opponendo valida resistenza, prese a rispondere colle proprie artiglierie. Allora pensò il Viceré di servirsi delle arti, quando la forza e la violenza non menavano al desiderato scopo, e quindi dai suoi partigiani fece consigliare il popolo di nominare per suo capo D. Francesco Toraldo Principe di Massa, Maestro di Campo Generale, il quale era tenuto dagli Spagnuoli per loro amico. Ciò fece il Viceré, affinchè, prendendo tempo, avessero potuto frattanto gli Spagnuoli fornirsi di viveri, e munire le Castella. Il Toraldo, accettato l’incarico, nominò D. Ottavio Marchese a Comandante delle artiglierie, Agazio Assaliti Tenente Generale e Francesco Puca , vecchio soldato, Maestro di Campo. Nominò altresì Onofrio Dezio e Domenico Messero suoi ufficiali, i quali avevano stabilito una cifra con gli Spagnuoli per metterli a giorno di quanto si decidea dal popolo. Furono fatte quattro trincee munite di molti cannoni. Fu proposto al Toraldo d’ impossessarsi del forte S. Elmo da Andrea Polito e Giovanni Bellino ingegneri, i quali dimostrarono la facilità di tale impresa, minandolo dal Monastero di S. Martino.

Ma tal proposta fu respinta dal Toraldo il quale ne vedea la probabile riuscita, ciò che non era nel suo piano, e mentre egli così tenea tutti a bada, gli Spagnuoli si fortificavano, ed ogni notte entravano nella città nuove truppe dai paesi vicini.

Il 24 agosto fu dal popolo tagliata la testa al Presidente Cennamo, e saccheggiata la di lui bellissima casa, donde i rivoltosi rapirono le stoffe di damasco, facendosene vesti, sicché in quel trambusto era uno spettacolo da muovere il riso, se non avesse destato orrore, il vedere la gente camuffata di abiti variopinti e bizzarri. Fu ancora preso un tale, al quale fu mozzata la testa per esserglisi trovati addosso dei chiodi ed un martello che si credette egli portasse per inchiodare le artiglierie. Furono carcerati il Prior della Roccella Carafa, D. Giovanbattista Caracciolo e il Duca di S. Pietro figliuolo del Reggente Lopez.

Fu portato in Napoli Giovan Serio Sanfelice padre di Lucio, Portolano di Napoli, e menato alla piazza del mercato, contro la volontà del Toraldo, gli fu mozzato il capo, tenendo in non cale le sue scuse e le sue proteste nel non aver colpa nè responsabilità di quanto avea operato il suo figliuolo nell’ufficio della sua carica.

Furono mandati nel 25 agosto al Viceré altri patti per parte del popolo, tra i quali, quello di sciogliere i seggi di Montagna, Portanova e Porto, e di rimanere solo quelli di Nido e Capuano, imperocché i componenti dei primi tre Seggi, nel dare il loro voto per le tasse da imporre al popolo, parteggiavano sempre per gli Spagnuoli vendendo spesso il loro voto.

Furono ancora in tal giorno mandati a Portici da Francesco Arpaia, Eletto del popolo, Pietrantonio Tramontano e Nunzio Perillo per impadronirsi del Principe di Minervino, il quale non avea mantenuta la promessa di mandare centomila tomola di grano al popolo napoletano. Dippiù fu sciolta una compagnia di preti bene armati sotto il comando di un tal prete D. Onofrio, perché il Toraldo addusse la ragione di non essere quello il loro posto. Il medesimo Toraldo nel dì seguente riunì molto popolo nel Duomo e parlò in favore della pace. Un prete, mentre egli parlava, disse: « Che razza di pace è questa» per lo che ordinò il Toraldo che fosse ucciso, come avvenne, ed ingiunse che tal sentenza seguisse per tutti quelli che erano dello stesso avviso del prete, i quali per essere moltissimi, avvenne un indescrivibile tafferuglio, sicché dovette intervenire il Cardinale e gli Eletti delle Ottine per mettere pace.

Il giorno appresso il Toraldo emanò un ordine col quale condannava alla morte chiunque esternasse l’idea di prendere il forte S. Elmo.

Il 28 agosto fu carcerato D. Cesare Sanfelice, Eletto dei nobili di Montagna, per essersi lasciato trasportare ad atti di sevizie contro alcuni contadini nei dintorni di Napoli, ed il 29 giunse la notizia della sollevazione della città di Lecce.

Il popolo nel 31 agosto chiese che tutti coloro le cui case erano state incendiate dalla plebe uscissero dalla città, meno D. Placido della Marra Duca della Guardia e D. Fabrizio Caracciolo Maestro dell’Annunziata, i quali ingiustamente aveano tanto sofferto.

Il giorno 3 settembre si cominciò a sperare un po’ di tranquillità, perchè, saputosi dalla plebe che si stavano stampando le Capitolazioni a seconda della sua volontà, furono rinchiuse le artiglierie in S. Lorenzo. Poscia l’indomani furono affìsse per la città le Capitolazioni e furono nominati dodici Giudici proposti del popolo, e furono Scipione de Martino, Paolo Staibano, Ortensio Pepe, D. Tommaso Caravita, D. Carlo Lopez Filomarino, Alessandro Confalone, Berardino Iovane, Agostino Mollo, Onofrio di Palma, Francescantonio Scacciavento e Aniello Persico, di cui i quattro ultimi tradirono il popolo.

Il 5 settembre Giulio Genoino con altri suoi parenti furono presi dagli Spagnuoli e fatti morire sopra una galera, perchè si era il Genoino vantato che per poco gli Spagnuoli non aveano, per suo volere, perduto il Regno. Il giorno appresso fu organizzata una cavalcata per celebrare la pace, ed il popolo invitò i nobili di Capuano e Nido a prendervi parte e specialmente i figliuoli di D. Carlo Brancaccio Regio Consigliere, i quali erano molto amati.

La cavalcata ebbe luogo il 7 settembre, ma il Viceré non vi prese parte un po’ per paura ed un po’ per non accompagnarsi ad un tale Andrea Terradilavoro, mercante, il quale contro sua voglia era stato eletto Sindaco. Il Toraldo, perchè podagroso, vi andò in seggiola, accompagnato dai Capitani del popolo, tutti a cavallo. Fatto il giro della città si portarono al Castelnuovo, dove entrarono gran parte dei capitani e principali della cavalcata. Si lessero i capitoli ed il Viceré giurò di osservarli, domandando in cambio di tali concessioni carlini quindici a fuoco per la sola città di Napoli, perchè il Cattolico stava alle strette. Ottenne il popolo di sciogliere i Seggi di Montagna, Portanova e Porto: l’espulsione dal Regno di coloro che aveano sofferto incendio e saccheggio, degli eredi di Giulio Genoino, del Duca di Maddaloni, del Duca di Caivano Spinelli, di D. Lucio Sanfelice, di D. Andrea Sanfelice e loro discendenti, nonché di quelli di D. Giuseppe Carafa, di Fra Vincenzo della Marra e i discendenti di D. Fabrizio Carafa. Si ottenne ancora l’esilio di Francesco Albano e Camillo de Franco, affittatori dei dazi, con la confisca dei beni, e l’esilio puranco di tutti quelli che aveano formulate scritture contro il fedelissimo popolo di Napoli: si ottenne dippiù che i nobili non potessero occupar carica veruna nella città, meno quelli di Capuano e Nido coi loro discendenti: fu accordato che si avesse indulto generale per tutto quello che era successo dal dì 7 luglio fino al giorno 7 settembre 1647: che i Capitani di galera della squadra di Napoli, il Protomedico ed i farmacisti fossero stati napoletani: che si scarcerassero alcuni Capitani del popolo: che il numero dei Giudici della Gran Corte fosse ridotto a dodici, metà civili e metà criminali: che nel riceversi gli Arcivescovi di Napoli, il popolo avesse avuto il suo posto, ed avesse il suo voto in ogni cosa che riguardava la città: che gli ufficiali che esercitavano la giustizia dovessero abitare nella cinta delle mura della città: che il popolo avesse maggior parte nell’Amministrazione della Casa dell’Annunziata e nel reggimento della città: che tutti i Casali di Napoli fossero dichiarati Demaniali: che fossero modificate le gabelle sul registro e sulle decisioni del Sacro Regio Consiglio; che ciascun luogo del Regno avesse il suo Capitano naturale e non forestiere, e che i Capitani di Giustizia non potessero far parte della truppa del popolo; che fosse proibito ai signori di rifugiare malfattori e proteggere fuorgiudicati. A tali prerogative se ne aggiunsero molte riguardanti l’amministrazione e l’applicazione della giustizia, riserbandosi il Viceré di rispondere circa la concessione del Forte di S. Elmo e della cessione dei posti della città alle truppe del popolo, per le quali cose aspettava la decisione del Re dalla Spagna. Tali capitoli vennero firmati dal Viceré Duca d’Arcos e dai seguenti: Diego Bernardo Zufia Reggente, Mattia di Casanatte Reggente, Antonio Caracciolo Marchese di S. Sebastiano Reggente, il Principe di Cellammare Giudice, Giov. Tommaso Blanch Marchese dell’Oliveto, Luzio Caracciolo di Torrecuso Duca di S. Vito, Achille Minutolo Duca del Sasso, Pompeo de Gennaro Duca di Belforte, C. Capece Galeota Principe di Monteleone, Giov. Battista de Mari, il Marchese del Torello e D. Giuseppe Mariconda Principe di Caracusa.

Ciononostante dopo tre giorni, ossia nel 10 settembre furono trovati dei cartelli per la città, i quali diceano la pace essere stata accettata da amici degli Spagnuoli, e quindi esser falsa, e ciò provarlo il non cessar dall’armarsi e dal fortificarsi di questi ultimi.

L’Eletto del popolo promise quindi nel dì seguente ventimila scudi a chi scoprisse l’autore dei cartelli, e siccome il Viceré temea che i Francesi tenessero mano a tal faccenda, ordinò che i forestieri uscissero dal Regno.

Nel 12 settembre si seppe in Napoli che la città di Aquila si era rivoltata, bruciando le case dei gabellieri, e che i gentiluomini, temendo del popolo, aveano prese le armi contro di esso, sicché i rivoltosi, usciti dalla città ed unitisi ai villani delle circonvicine campagne, aveano deciso di saccheggiarla; ma i gentiluomini coadiuvati da molti cittadini si erano difesi energicamente contro i ripetuti assalti dei rivoltosi.

Il dì i 3 settembre, essendosi guastato un acquedotto presso la Panatica, e gli Spagnuoli accomodandolo, diedero ragione al popolo di credere che volessero fortificare quel posto, per lo che cominciò lo schiamazzo, dicendosi che quelli non teneano i patti, e per quetarlo fu d’uopo scarcerare un tal Pione Giannattasio Alfiere dei Lazzari , il quale era stato il dì innanzi arrestato ad istigazione di Geronimo Letizia, di cui pochi giorni prima era stata bruciata la casa.

La città fu tranquilla fino al 1° ottobre, giorno in cui fu vista nelle acque di Napoli una flotta, e si seppe essere l’armata di D. Giovanni d’ Austria, figliuolo naturale di Re Filippo di Spagna procreato con una cantante spagnuola, tale Calderona.

Egli portava seco 47 vascelli, dei quali la metà incontrati per via, e che egli avea obbligati a seguirlo per metter maggior paura alla città. Fu allora dalla nobiltà mandato D. Giulio Caracciolo, e dal popolo il suo Eletto a scambiar le convenienze di uso con D. Giovanni, ed il Caracciolo dopo di aver presentati a D. Giovanni gli omaggi della nobiltà, proruppe in ingiurie contro il popolo, deplorando le offese e i danni che quella da questo avea ricevuti. Poscia recossi a bordo anche il Viceré, e conchiuse con D. Giovanni di impiegar tutti i modi per disarmare gl’insorti. L’indomani, essendosi sparsa la voce della grande armata condotta da D. Giovanni, i popolani seppero non esservi che quattromila soldati, per lo che furono inventate delle canzoni di burla per gli Spagnuoli, i quali, con tanto piccolo numero di soldati, pretendeano sottomettere una città in armi.

D. Giovanni cacciò un bando che fra tre giorni il popolo deponesse le armi in Castelnuovo; ma a tale ordine non fu obbedito. Il Viceré fece chiamare molti popolani, promettendo loro largo guiderdone, acciocché fossero di guida agli Spagnuoli contro i rivoltosi, ma essendosi essi negati, furono tutti tratti in carcere. Ciò saputosi da molti curiali ed abitanti del quartiere di S. Giovanni a Carbonara, si offersero costoro ai voleri del Viceré, e domandarono per loro Capo D. Ferrante Caracciolo, il quale, trovandosi in Nola per ragion di servizio nella sua carica presso la Casa Vicereale, fu invece sostituito da Masillo Caracciolo cui furono mandati 200 moschetti per armare i suoi dipendenti. Frattanto la Piazza del popolo mandava a D. Giovanni d’Austria un magnifico regalo di confetture, frutta e rinfreschi portato da Andrea Polito, Peppe Palumbo, Onofrio Cafiero, Gianni Panarella, Gregorio Accietto, Giovanni Ruoppolo e Geronimo Uccello, i quali furono ricompensati con ricchi doni.

Il giorno appresso fu il popolo di nuovo invitato a lasciare le armi, ma si negò ad istigazione di Gennaro Annese. Riunitosi allora un Consiglio di guerra, il Duca d’Arcos propose di far discendere la truppa e metter fuoco alla città, ma il suo parere essendo stato rigettato dal Reggente Casanatte, dal Principe d’Ascoli, da Achille Minutolo, da Giov. Tommaso Blanch, dal Principe di Cellammare Giudice e dal Vescovo di Pozzuoli Fra Martino de Leon y Gardines, il medesimo Viceré ordinò al Consigliere Miroballo di chiamare i nobili e Baroni con seguito d’armati, affinchè dessero braccio forte alle truppe.

L’indomani si seppe che la notte sarebbero discesi i soldati dalle navi, per lo che il popolo si mise in armi ed il Viceré, affin di coonestare qualunque atto di violenza cui avesse potuto dar luogo , mandò un tal Onofrio de Sio della Cava a spiare quanto facevasi dal popolo, e saputo che si preparava alla difesa ne fece distendere verbale firmato dal de Sio, da Francesco Sebastiano, da Paolo Fioretto e da Filippo de Ruggiero, e tal verbale spedi al Re in Ispagna.

Divulgatosi questo fatto, molti onesti cittadini supplicarono D. Michele Borgia acciò dissuadesse D. Giovanni dal pensiero suggerito dal Duca d’Arcos di mettere a sacco e fuoco la città. Ad essi rispose il Borgia che D. Giovanni era venuto a metter pace nel Regno. Intanto il Toraldo istigato dal Viceré, pregò il popolo a deporre le armi perchè così senza sparger sangue tutto finisse con l’accordo; ma ciò fu fatto inutilmente, poiché esso rispose dover tenere le armi, fino al momento in cui venissero accettate dal Re le altre domande fatte.

Il dì seguente, che fu il 5 ottobre, venne chiamato il Toraldo dal Viceré, ma il popolo non volle che vi si recasse, ed un tal Tonno Vecchione, essendo andato a chiamare per ordine del Viceré il Capitano del popolo al posto di S. Maria maggiore, e questi rifiutandosi, lo minacciò di fargli bruciare la casa; allora gl’insorti a tal minaccia gli mozzarono la testa che portarono in giro per la città.

Intanto il Toraldo mandò dal Viceré D. Ottavio Marchese, Generale delle artiglierie, il quale ritornò dicendo che il Viceré volea che il popolo deponesse le armi nel Castelnuovo. Dippiù il sospetto che i patti non venissero rispettati indusse la moltitudine a far sonare a stormo la campana di S. Lorenzo ed a far rimettere le artiglierie nei varii punti della città. Volendo allora il Viceré cominciare a reprimere il tumulto, fece schierare alquanta truppa sulla piazza del Castelnuovo, la quale, volendo impadronirsi delle trincee fatte dal popolo presso S. Giuseppe, per non dar tempo ai rivoltosi di far fuoco, cercò d’ingannarli nel seguente modo: D. Peppe de Sangro di Casacalenda ed il Duca di S. Giuliano Montalto Luogotenente della Camera simularono d’essere venuti alle mani, e con le spade sguainate si avanzarono verso le trincee; gli Spagnuoli si avanzarono dal canto loro facendo mostra d’inseguirli, e profittando del momento in cui il popolo guardava i due combattenti senza accorgersi dello inganno, disarmarono ogni posto che trovarono, e giunti alle trincee, dai Castelli cominciarono a tirar sul popolo, il quale, assaltato all’improvviso e stretto alle spalle da altri Spagnuoli che la notte erano stati introdotti dai Gesuiti nelle loro case e nel Convento di S. Chiara, si vide a mal partito, sicché il Puca che comandava le trincee, vedutosi sopraffatto dalla truppa, si ritirò con gl’insorti in S. Domenico, ove fortemente si trincerò.

Intanto altro popolo combattea al principio della strada dei Guantai, e le donne gettavano dalle finestre sassi, mobili e quant’ altro poteano addosso agli Spagnuoli, uccidendone molti, e questi ammontecchiavano fascine con catrame alle porte delle abitazioni e vi appiccavano il fuoco; in modo che orribili a descriversi furono quei momenti. Sopraggiunta la notte, si fece alto da ambo le parti, e gli Spagnuoli restarono occupando i Guantai e S. Maria la Nuova fino al Gesù Nuovo e S. Chiara.

Il giorno appresso gli Spagnuoli, guidati da D. Prospero Tuttavilla, marciarono per Toledo fino allo Spirito Santo, dove giunti, furono accolti da una numerosa salva di cannonate e moschettate, di cui furono vittime molti soldati. Tal resistenza fu fatta in opposizione del Capitano del popolo, Onofrio Amarena, il quale, perchè già venduto agli Spagnoli, volea cedere il posto senza trarre colpo. Altre scaramucce successero a Portalba e Pontecorvo, a S. Potito ed a S. Sebastiano, sempre con maggior danno degli Spagnuoli, i quali erano condannati a combattere così per le strade e senza riparo.

Sopraggiunta la notte, ordinò il Viceré che fosse tolto tutto il frumento dalle fosse del grano e fu dato ordine a tutti coloro che possedevano carrozze e cavalli di prestarsi affinchè fosse trasportato; ma tale volontà non ebbe effetto, perchè il popolo non cessò per tutta la notte di molestare gli Spagnuoli con cannonate, per lo che questi non potettero accostarsi alle fosse del grano. Furono aperte le carceri della Vicaria , i cui detenuti, bruciati gli archivi contenenti interessanti processi e scritture, e massacrando i custodi, si armarono in soccorso del popolo. Il Castello del Carmine avendo cominciato a tirare sulle galere che erano presso il Molo, obbligò quelle a prendere il largo.

L’indomani gli Spagnuoli si fortificarono nel recinto delle fosse del grano, e i popolani, rotto un muro, vi si intromisero, e dopo un accanito combattimento ne scacciarono gli Spagnuoli. Allora il popolo mandò a proporre la pace a D. Giovanni, il quale rispose di non volervi accondiscendere, ma dopo poche ore giunse una sua lettera, che i popolani, indispettiti dalla prima risposta, rimandarono lacerata, dicendogli di volere piuttosto morire che rendersi.

La mattina seguente il de Sio procedette all’arresto di Andrea Onofrio e Domenico Polito, i quali, sottoposti ai tormenti, confessarono di avere con l’Arpaia chiamati i Francesi a venire nel Regno, per lo che essi furono strozzati, e l’Arpaia fu mandato nelle carceri di Orano, avuto riguardo che in molte congiunture erasi mostrato parteggiano degli Spagnuoli. Fuvvi in questo giorno un continuo cannoneggiamento dalle Galere, dalle Castella, dal Carmine, da S. Potito, dagli Studii, e da tutti gli altri posti occupati sì dagli Spagnuoli che dal popolo, il quale due ore dopo il mezzogiorno scacciò gli Spagnuoli da tutti i posti occupati nel dì innanzi, sicché costoro, indispettiti pel cattivo esito della giornata, misero fuoco a gran quantità di palazzi. Furono saccheggiate dal popolo tutte le masserie e possessioni dei Gesuiti, i quali erano stati dichiarati traditori.

Nel medesimo giorno fu mandato al Viceré il Marchese di Paglieta Pignatelli da molti signori che si trovavano presso Benevento, chiedendo il permesso di armarsi per poter resistere ai rivoltosi. La giornata si compì col togliersi da parte del popolo il grano dalle Fosse e col trasportarsi questo al palazzo della Vicaria.

Il dì 9 ottobre, giorno susseguente essendosi ribellata a D. Giovanni d’Austria una Galera chiamata S. Teresa, ed avendo tentato di fuggire, fu dessa dal vento spinta presso Resina. Colà i popolani se ne impadronirono, e prese le artiglierie, le inviarono ai napoletani.

Ordinò il Toraldo ad istigazione dei Capitani del popolo, che fosse fatta una leva di soldati a cavallo, e fu ordinato a tutti i possessori di cavalli di rivelarli sotto pena della vita. Presi allora i più belli cavalli, fu organizzato un numeroso corpo sotto il comando di D. Francesco Filangieri. Frattanto dai ribelli fu mozzata la testa ad un tal Capitano Marcone, a Giovanni Panarella e ad un suo compagno, accusati di avere intelligenza con gli Spagnuoli. Poi l’indomani si tentò di bruciare il Gesù Nuovo ed il Monastero di S. Chiara.

I popolani anch’essi ricorsero all’inganno ed agli stratagemmi per aver la vittoria, sicché nel dì 11 ottobre il posto di Porto ingannò gli Spagnuoli, per ucciderne molti, nel seguente modo. Fu caricato un cannone con palle di moschetto, e poi messa sulla miccia una piccola tavoletta con sopra un pugno di polvere, si diede più volte fuoco, sicché si sparse la voce di un tradimento, e che il pezzo era stato inchiodato. Ciò udito, gli Spagnuoli accorsero per impadronirsi del cannone, ma in quel punto i popolani, tolta la tavoletta e dato fuoco alla miccia, uccisero moltissimi soldati che si erano avanzati sicuri della conquista.

II 13 ottobre un tal Filippo Contieri Capitano del popolo accusò il Toraldo di parteggiare per gli Spagnuoli, perlocchè questi fu privato del comando e rinchiuso in una casa alla Zabatteria, sotto buona guardia, e fu allora creato Capo del popolo Michele de Sanctis, quel beccaio che avea mozzata la testa a D. Peppe Carafa. Lo stesso dì il Marchese di Paglieta presentò al Viceré una nota dei Baroni che prometteano tenere uomini armati pel regio servizio, chiedendo di avere per loro comandante D. Carlo della Gatta valoroso Capitano.

L’indomani verso le tre ore di notte gli Spagnuoli assaltarono la trincera presso il posto del Sangue di Cristo, ma furono respinti dal popolo riportando gravi perdite. Fuvvi allora un tal Luigi del Ferro di Roma , che incitò i popolani a chiedere la protezione della Francia, come pure i fratelli D. Giuseppe e D. Felice Giordano, ed un tale Abate Gennaro, i quali esortarono l’Annese di cedere il Torrione del Carmine ai Francesi, per lo che, presi dal popolo, furono tutti decapitati.

Ciò pervenuto all’orecchio di D. Giovanni d’Austria, questi ne fu molto compiaciuto, tanto da scrivere al Toraldo che in ricompensa di tale atto volea venire a patto col popolo, per la qual cosa fu incaricato il Cardinale a trattar la faccenda. Ma questi si negò adducendo per ragione che, essendogli venuta meno la parola del Viceré la prima volta, non volea più immischiarsi in tali negozi. D. Giovanni indispettito per tale risposta, ordinò che fosse spianata la casa del Cardinale a S. Giovanni maggiore, ed essendo stata affidata tale esecuzione a Cornelio Spinola, fu fatto in modo che le cannonate danneggiassero solamente i tetti di quel palazzo.

Intanto i nobili, vedendo che la plebe non cessava dalle ostilità, non lasciavano d’armarsi. Il Duca di Maddaloni giunse con trecento cavalli in Melito, con Lucio Sanfelice ed il figlio del Consigliere Muscettola, feudatario di quella città, e con molti altri Signori, seguiti nell’assieme da circa 10 mila armati, i quali per le paghe scarse che aveano, invece di marciare su Napoli, cominciarono a saccheggiare i vicini paesi, sicché i terrazzani, al solo sentire che questi si avvicinavano, con le armi si opponeano a farli entrare nei loro paesi.

Saputosi nel 15 ottobre dal popolo il divisamento di D. Giovanni d’Austria, di venire cioè ad accordi, furono a lui mandati Francescantonio Scacciavento, il Padre Barra Carmelitano, Matteo Scalese e Camillo Tammaro, co’ seguenti capitoli - 1.° Che fosse dato al popolo il Castello di S. Elmo - 2.° Che coloro

che aveano sofferto incendio fossero esclusi dal Regno - 3.° Che i Capitani ed altri addetti al servizio di Sua Maestà fossero rinchiusi nel Castelnuovo - 4.° Che

il Duca d’Arcos ed il Visitatore Generale andassero via dal Regno, restando per Viceré D. Giovanni d’Austria - 5.° Che fossero riconosciuti ufficialmente tutti i Capitani del popolo, e che fossero espulsi dal Regno tutti i nobili che aveano consigliato il Viceré a’ danni del popolo.

D. Giovanni rimandò a terra gli Ambasciatori, promettendo loro per l’indomani una risposta, e siccome quelli furono accompagnati dalla barca di Sua Altezza, alcuni popolani, ignari delle trattative, credendo che in quella fosse D. Giovanni, gli tirarono varie moschettate, che per fortuna non recarono verun danno. In questo stesso giorno due galere si portarono sulla marina di Posilipo per operare uno sbarco, ma i pochi abitanti che ivi si trovavano si difesero con tanta energia da costringere le galere a tornare indietro con la perdita di 12 uomini.

Il Maddaloni intanto, il Sanfelice, ed i figli del Consigliere Muscettola fecero saccheggiare la terra di Melito, per lo che il Toraldo, tenuto dal popolo qual consigliere, fu obbligato di metter una taglia di Ducati mille per ciascuno di essi.

Fu eletto Tenente Generale del popolo Marcantonio Brancaccio, già Maestro di Campo dei Milanesi e poi dei Veneziani.

Il 16 ottobre si seppe che molti Baroni, per seguire la volontà del Viceré, si riunivano in Benevento, e tra questi principali furono il Maddaloni, il Principe di Torella Caracciolo, il Principe di Minervino Pignatelli, il Duca di Gravina Orsino, il Marchese di S. Marco Cavaniglia, il Duca di Martina Caracciolo, il Principe di Sepino Leonessa ed altri ai quali il Torella offri 6000 tomola di grano che avea nel suo feudo di Bella, per sovvenire i soldati. Le, quali cose, saputesi dai napoletani, fu emanato un ordine che nessun Barone o titolato dovesse tener comitiva contro del popolo, con minacce di gravissime pene, e fu messa una taglia di Ducati mille sulla testa di Giuseppe Mastrillo, e del Duca di Siano Capecelatro.

Nel medesimo giorno si sparse la voce per Napoli che il Pontefice Innocenzo X avesse pubblicato un breve col quale dichiarava che chiunque del popolo moriva in questa lotta contro gli Spagnuoli sarebbe andato dritto in Paradiso, per cui si accrebbe l’entusiasmo della plebe, e molti che si trovavano in fine di vita per ferite ricevute, mandavano via i preti, dicendo di non averne bisogno.

Il dì seguente il popolo, dopo fiero contrasto, occupò la Dogana della farina e vedendo che gli Spagnuoli non aveano ritegno di commettere qualsiasi eccesso, inviò una nota al Papa, all’Imperatore ed agli altri Potentati d’ Europa chiedendo aiuto contro di quelli, i quali tentavano distruggere la città.

Nel 18 ottobre, ossia dopo tre giorni, si seppe la risposta data da D. Giovanni alle domande fatte dal popolo; con essa si negava la consegna del Castello di S. Elmo, si promettea di mandar via a suo tempo il Viceré ed il Visitatore; di alleggerire il popolo dalle gabelle; e di accordare l’indulto a tutti quelli che aveano preso parte alla rivolta. E conoscendo tali cose non essere di piena soddisfazione del popolo, assegnò ai Baroni suoi fautori le piazze di Capua e di Aversa come luoghi di riunione, ingiungendo loro d’impedire l’entrata dei viveri nella città. Il Duca d’Andria Carafa con 500 cavalli prese stanza in Aversa col Duca di Martina Caracciolo, col Principe di Forino Caracciolo, col Principe di Colobrano Carafa, col Principe di Minervino, con quello di S. Angelo, con quello di Montesarchio Avalos, e col Duca di Gravina, i quali tutti tennero per circa un mese, a spese proprie, mille fanti e duemila cavalli, sotto il comando di D. Prospero Tuttavilla Tenente Generale della Cavalleria, il quale per essere poco gradito ai Baroni, fu causa che il Montesarchio ricusasse la carica di Governatore della Cavalleria grossa, ed il Duca di Montecalvo Pignatelli il comando di due Compagnie di Corazzieri. Nello stesso giorno il Tuttavilla andò ad assaltare Marano con 500 tra fanti e cavalli, ma fu completamente battuto dai paesani, perdendo molti uomini ed un cannone, e restando ferito mortalmente il Marchese di S. Giuliano.

Il popolo intanto, vedendo che da ogni parte si congiurava a suo danno, e temendo non poco la inimicizia della nobiltà, mandò a Roma, ad istigazione del Brancaccio, un tal Nicola Mannara, acciò caldamente supplicasse il Duca di Guisa di accorrere in sua difesa. Alle reiterate istanze del Mannara, il Guisa vide in tal fatto l’occasione di farsi merito col suo congiunto il Re di Francia, conquistandogli il Napoletano, e decise di metter le mani in tal faccenda. Il Guisa, della Reale stirpe di Lorena, era stato privato dei suoi stati per sospetto di ribellione al suo Re. Egli datosi da prima alla carriera ecclesiastica, fu Arcivescovo di Reims; ma lasciata la mitra, sposò una giovane che ripudiò, sposandosi di nuovo. Questo secondo matrimonio nemmeno gli sembrò ben contratto, e, volendo procedere ad un secondo ripudio, erasi portato personalmente dal Papa per raggiungere il suo scopo. Invitato dunque dal Mannara uscì inosservato da Roma, e giunto a S. Paolo dove lo attendevano alcuni cavalli, si ridusse a Fiumicino, dove era aspettato da 12 feluche mandategli dai Napoletani.

Il 19 ottobre vennero dalla Cava trecento villani in aiuto del popolo napoletano, e dalle Calabrie gran numero di Calabresi in aiuto degli Spagnuoli, sotto il comando del Marchese di Fuscaldo Spinelli.

Il 20 ottobre si sparse la voce che i Deputati ed Eletti del popolo, riuniti nella Casa del Cardinale , cercavano tutti i mezzi di ottenere la pace dal Viceré, e la plebe colà portatasi cominciò fortemente a schiamazzare gridando di non volere la pace: poi in ultimo, recatasi a Porta Medina, si impadronì di varii posti occupati dagli Spagnuoli. Dippiù fu minato il Monastero di S. Chiara; ma il Toraldo, non potendo apertamente opporvisi, avea fatto mischiare molta terra alla polvere per lo che non si ebbe a deplorare verun danno.

Questo fu l’ultimo atto compiuto dal misero Toraldo, poiché il dì seguente si disse aver egli segretamente fatto levare l’acqua dai molini e dai pozzi, per fare che il popolo si arrendesse, e quindi sotto il peso di tale accusa fu preso e portato alla strada della Loggia di Genova, dove gli fu mozzato il capo.

Egli nel morire disse di essere contento di subire tal pena, avendo fedelmente servito il suo Re. Queste parole inferocirono talmente gli astanti che, squartato il cadavere, ne mandarono il cuore alla moglie Duchessa di Castro, ch’erasi ritirata in un monastero. Per Generalissimo fu eletto Gennaro Annese.

L’indomani la mancanza dell’acqua cominciò a tormentare il popolo, che mandò a pregare il Principe di Montesarchio acciò ne facesse riempire i pozzi, minacciandolo che, qualora non esaudisse le sue preghiere, sarebbero state uccise due sue sorelle monache in S. Gaudioso; ma il Montesarchio rispose non volerne sapere nulla e che il popolo si regolasse come meglio credea. In questo giorno furono uccise tre donne credute spie degli Spagnuoli.

Il 23 ottobre l’Annese pubblicò un ordine a tutte le compagnie degli Albanesi di presentarsi a lui con le armi e cavalli, ed ordinò alla città di Aversa di ammazzare o scacciare il Duca di Maddaloni con le sue genti, minacciando serii castighi.

Il dì seguente alcune compagnie di Spagnuoli andarono ad attaccare Antignano, casale presso Napoli. Colà accorsero alcune compagnie di napoletani, respinsero gli Spagnuoli e tagliarono la testa a nove di essi rimasti prigionieri.

Fu emanato ordine dallo Annese che ogni cittadino atto alle armi fosse obbligato a servire la patria sotto pena di essere decapitato.

Il 21 ottobre giunse in Napoli il Duca di Tursi Doria , proveniente da Genova con 15 galere, delle quali dieci spagnuole, e con lui venne D. Loise de Gusman, mandato qual Maestro di Campo in sostituzione del Tuttavilla.

Poscia il giorno dopo si sparse la voce che venivano in aiuto di Napoli otto Vascelli e 24 galere francesi, recando un milione di Ducati in soccorso del popolo, per lo che furono inalberati degli stendardi portanti da una parte lo stemma della Repubblica napoletana, cioè uno scudo diviso di oro e di rosso, con le quattro lettere S. P. Q. N. (Senatus Populusque Neapolitanus), e dall’altra lo stemma del Duca di Guisa.

Nella notte del giorno 30, il popolo fece con gran celerità una grande trincera rincontro al Castelnuovo, e sul far del giorno cominciò con due cannoni a sparare contro il Castello con grande sorpresa e danno degli Spagnuoli.

Il 2 novembre il Duca di Tursi andò a Posilipo con le sue galere per impadronirsi di quelle colline, ma fu energicamente respinto dai paesani. Fu nominato dal popolo in luogo del Brancaccio, Francesco Melone; per Generale delle artiglierie Aniello de Falco; e per Generale della Cavalleria, composta di 500 Cavalleggieri e di 12 Compagnie, Francesco Filangieri. In questo giorno molti Spagnuoli disertarono dal Castelnuovo, andando ad ingrossare le file dei rivoltosi, dai quali furono ricevuti con grandissimo giubilo.

Il 5 novembre fu ripulito il palazzo della Vicaria, togliendone il grano che vi era stato riposto, affin di ricevere il Duca di Guisa, poiché delle lettere di lui e del Cardinale Barberini dicevano l’armata francese esser partita da Marsiglia per alla volta di Napoli.

Il 6 novembre fu presa dal popolo nel golfo di Salerno una tartana carica di polvere che il Viceré mandava a quel Forte, e fu mandata a Napoli. Furono organizzate due compagnie una chiamata de’ Lanarotti, composta di giovani di 18 anni circa, coll’incarico di bruciare i luoghi ove stavano gli Spagnuoli; ed un’altra detta de’ Lanari, la quale, per essere insolentissima, era straordinariamente temuta. In questo stesso dì furono decollati a Chiaia due individui creduti spie degli Spagnuoli. Poscia il figlio del Conte di Celano, con altri Cavalieri e con due galere di Spagnuoli prese la Torre del Greco, senza che i paesani avessero opposta alcuna resistenza. Ma il dì poi, fu quella città ripresa da Jacopo Russo colà mandato dal popolo napoletano alla testa di tremila uomini.

Il dì 9 novembre, saputosi dal popolo di Napoli che i Baroni alla testa dei loro armati si accostavano alla città, furono fortificate con cannoni le porte Capuana e Nolana ed il Ponte nuovo.

Dopo tre giorni furono viste alcune galere nel golfo, e credendosi essere quelle della Francia, furono fatte grandi feste, mentre quelle galere venivano dalla Sicilia a prendere il Cardinale Trivulzio, il quale, dopo la morte del Marchese de los Veles, era stato nominato Viceré di Sicilia. Si ebbero in Napoli alcune lettere del Marchese Fontanaj, Ambasciatore e del Cardinale Mazzarino, le quali prometteano aiuto ai Napoletani.

Il dì i 3 novembre fu decollato presso gli studii Matteo Carola, Sergente maggiore del popolo, per avere il giorno innanzi ceduto un posto agli Spagnuoli senza opporre resistenza. Il Nunzio di Napoli Monsignore Altieri Vescovo di Camerino, per ordine del Papa, si portò dall’Annese, acciò fosse quietato il tumulto, ma si ebbe per tutta risposta che non era più tempo di pensare alla pace, e che il popolo era pronto a resistere con le armi. Nella notte il Duca di Maddaloni Carafa ed il Conte di Conversano Acquaviva furono battuti da una squadra popolare presso Grumo. Nel combattimento morirono un figliuolo del Conte di Conversano e quattordici altri Cavalieri, le cui teste furono nel di vegnente portate processionalmente per la città.

Giunto in Napoli frattanto nel 15 novembre il Duca di Guisa, e sbarcato alle ore 16 al Ponte della Maddalena, fu ricevuto sontuosamente dal popolo e fu portato nella Chiesa del Carmine, dove, dopo avere udita la messa, salì sull’ altare maggiore e parlò lungamente ai rivoltosi, chiudendo il suo discorso con un Evviva al popolo, al quale fu risposto per tre volte, Viva il Re di Francia: viva il Duca di Guisa; le quali funzioni finite, passò ad alloggiare nel Castello del Carmine, facendosi per la città grandi feste.

Nel 14 novembre, gli Spagnuoli fecero saltare in aria una mina presso Visita poveri, per effetto della quale morirono 12 popolani, e minarono la porta Alba, la quale, essendo controminata dal popolo, non ebbe verun danno.

Il Duca di Guisa, il 19 novembre giurò alla presenza del Cardinale Filomarino e dei rappresentanti del popolo di difendere la città e spendere la sua vita per essa, dopo di che fu benedetto dal Cardinale.

Due giorni dopo, continuando le turbolenze, due compagnie di cacciatori del popolo essendosi avanzate fino alla Piazza S. Carlo, non avendo avuto rinforzo a tempo, furono battute dagli Spagnuoli.

L’indomani i Baroni presero e saccheggiarono Marigliano presso Nola.

Il 25 novembre le ostilità presero un aspetto più grave, perchè gli Spagnuoli attaccarono in varii punti il popolo, combattendo tutta la giornata senza che dall’una parte e dall’altra si fosse cambiato di posizione. Fu arrestato dai popolani un falegname, il quale, avendo confessato d’aver lavorato 200 scale larghe per gli Spagnuoli, per ordine del Guisa furono demolite tutte le case che erano attaccate alle mura della città. Il Guisa prese in prestito Ducati 20 mila dal Monte di Pietà, Ducati 84 mila dalla Cassa di S. Eligio e Ducati 6 mila dalla Cassa dell’Annunziata.

Altro di notevole non avvenne fino al 28 novembre, giorno in cui, essendo stato spedito Jacopo Russo con due compagnie di popolani a prendere del grano in Cardito, fu stretto dagli armati dei Baroni, i quali gli uccisero cinquanta uomini, sicché egli non potè impossessarsi che di sole 35 tomola di grano.

Dippiù per dare un esempio di severa disciplina, fu appiccata per ordine del Guisa, una sentinella che era stata trovata addormentata.

L’indomani molti nobili si offrirono di voler venire in aiuto dei rivoltosi, sotto il comando di Giacomo di Falco Maestro di Campo, ma il popolo, temendo un tradimento, non volle averli con esso.

Il giorno seguente fuvvi presso l’Olivella una sanguinosa rappresaglia tanto che, chiamato il Parroco per assistere i moribondi, e recatosi quegli a S. Maria maggiore, trovò la Custodia rotta e la Pisside involata: si ricercò il ladro il quale fu rinvenuto nascosto sul pulpito, al quale fu dal popolo mozzata la destra e nel dì vegnente venne appiccato.

Il 13 dicembre i Baroni si impossessarono di Frattamaggiore dopo molti giorni di assedio, facendo strage del popolo. Frattanto si ebbe a temere pel Guisa il quale la mattina del 5 dicembre, dopo bevuta certa acqua inzuccherata, ebbe molto a soffrire, sicché si credette ad un avvelenamento, ed il coppiere fu sottoposto ai tormenti, ma non avendo confessato nulla, fu liberato.

Il dì 9 dicembre scelse il Guisa 24 mila uomini dei meglio armati e ne formò tre corpi: uno sotto il comando dell’Annese, che spedì verso Salerno; il secondo comandato da Pietro Ansalone che inviò alla volta di Avellino, ed il terzo da Cipriano Airola, Cameriere maggiore del Guisa, che marciò verso Giugliano. Quest’ultimo corpo nell’uscire dalla città, essendosi incontrato con un drappello di 200 Spagnuoli, li sbaragliò tutti, disarmandone una porzione.

Il dì seguente fuvvi uno scontro tra i popolani e le squadre del Duca d’Andria e del Tuttavilla. In tale scontro morirono da più di 600 soldati per la maggior parte del popolo. Furono muniti i Forti della città e fu costruito un ponte presso Poggioreale con cinque cannoni dal Guisa , il quale uscì alla testa di 1500 moschettieri, 12 mila popolani armati e 400 civili presi a forza, e marciò verso Capua. Ma gli Spagnuoli, avendo assaltata e presa la Dogana grande, fu il Guisa costretto a rientrare nella Città, affine di scacciarli da quel posto importante. Nel combattimento morirono 24 popolani e molti regi.

Due giorni dopo, un gran temporale fracassò una delle più grandi Galere Spagnuole presso la Lanterna del Molo, ed avendo gli Spagnuoli assaltate le trincee presso la Chiesa di S. Nicola, furono vigorosamente respinti.

Il 16 dicembre fu fatta la processione in onore di S. Gennaro, alla quale intervennero il Guisa, il Cardinale, gli Eletti del popolo, ed alcuni Cavalieri, tra i quali Masello Caracciolo di Forino.

Il 17 dicembre, sei bombardiere e due feluche, essendosi ribellate agli Spagnuoli, si portarono sotto il Forte del Carmine mettendosi a disposizione del popolo.

Il 17 dicembre, fu vista nel Golfo di Napoli l’armata francese, composta di 29 va scelli, cinque barche incendiarie ed alcune fuste, per lo che la città fu imbandierata. Furono sbarcate polveri ed altre munizioni al Castello del Carmine, ed il Richelieu, Capo della Squadra francese, ordinò di cominciare il combattimento; ma pel forte vento che spirava sospese un tale ordine, e ricevette a bordo con grande onore i Capitani del popolo, i quali gli recarono molti rinfreschi.

Avvisati intanto i Francesi che in Castellamare trovavansi delle navi cariche di grano, risolvettero d’impossessarsene, e mentre colà si recavano, trovarono un brigantino che presero, uccidendone il capitano.

Il dì seguente il popolo credendo ad un tradimento per parte dei Francesi, i quali fecero passare una nave Spagnuola tra le loro navi, senza molestarla in nessun modo, impedì lo sbarco dei soldati francesi. Ma dopo tre giorni tal sospetto di tradimento svanì perchè fuvvi un combattimento tra le navi francesi e spagnuole, senza danno di niuna parte.

Nel 23 dicembre molti del popolo mandarono a pregare il Duca d’Orleans che stava sulla Capitana francese, acciò avesse accettata la Corona del Regno di Napoli. Ciò conturbò moltissimo il Guisa che li fece tutti incarcerare , facendone morire sette, tra i quali Salvatore di Gennaro e Pietro Danisio. Levò il comando del popolo all’Annese creandolo Castellano del Carmine , ed egli si fece intitolare Duca della Repubblica Napolitana, sicché recatosi in S. Lorenzo, con gran pompa fu investito di tal qualità, e poscia recatosi al Duomo, fu cantato il Te Deum.

Avea l’Annese in tempo del suo comando messa assieme una bella quantità di argenti che, veduti dal Guisa, gli furono chiesti in prestito, senza che poi fossero più restituiti. Di ciò l’Annese mosse rimprovero al Guisa, dicendogli non esser questo un atto da Principe. Il Guisa intanto, non andandogli a sangue il modo col quale era stato trattato da un popolano, ordinò ad Agostino de Lieto suo Capitano, che l’avesse fatto uccidere, per la qual cosa da due soldati, mentre egli sporgea il capo da una feritoia, gli furono tirati due colpi di moschetto, i quali non lo colpirono. I soldati furono arrestati, ma per ordine del Duca furono dopo due giorni messi in libertà.

Il 24 dicembre, il Guisa in occasione del Santo Natale fece liberare tutti i carcerati.

Il primo giorno dopo Natale, i Lazzarotti presero 600 bufale e 12 carri di grano dai paesi vicini, e li portarono nella città.

Nel 30 dicembre, fu emanato un ordine dal Guisa che niuno ardisse salire sui Monasteri, o case private, senza il suo permesso in iscritto; che tutti coloro che si trovavano possedere roba dei ribelli dovessero rivelarlo; che tutti coloro che avessero dritti sulle gabelle della città dovessero dare i titoli a lui; che tutti coloro che occupavano cariche ed ufficii prima della rivolta lo avessero rivelato per essere nominati di nuovo; che i notari, scrivani e mastrodatti, nelle scritture, doveano dopo il nome di Dio, mettere quello della Repubblica napoletana.

In questo frattempo D. Giovanni d’Austria esortò il Viceré a partire, e non volendo questi aderire, minacciò di andarsene a Porto Maone, istigato a ciò fare dagli Uffiziali Spagnuoli che voleano mettere in salvo le robe acquistate col saccheggio. Però la nobiltà si oppose calorosamente, temendo di rimaner sola contro il popolo, sicché il Viceré, essendovi costretto, s’imbarcò con fama che le sue vessazioni avessero cagionata la rivolta del popolo.

Il 1 gennaio 1648, molte squadre del popolo si portarono ad Aversa per prendere quella città, ma furono completamente battute dai Baroni che la occupavano.

Il 3 gennaio furono presi sul Vomero il Duca di Tursi D. Carlo Doria, il Principe d’Avella suo nipote e D. Prospero Suardo, i quali ingannati da un prete tal D. Giuseppe Scoppa, credendosi di conquistare quel posto guardato dai soldati del popolo, e per cui aveano sborsato Ducati 6 mila, furono tutti menati al Guisa che li consegnò a privati cittadini quali prigionieri di guerra, creando suo familiare lo Scoppa.

Il 6 gennaio, i Baroni che presidiavano Aversa, vedendo di non poter più resistere ai continui attacchi del Guisa decisero in casa di D. Carlo Carafa, Vescovo di quella città, di abbandonare Aversa e portarsi a Capua, comandati dal Tuttavilla. Il popolo di Capua però non volea farli entrare, ma alle minacce del Governatore della città, N. Gaetani, furono aperte le porte e ricevuti.

Il giorno dopo i cittadini di Aversa saccheggiarono la città e mandarono tutto il grano a Napoli. Fu creato frattanto Maestro di Campo degli Spagnuoli D. Luigi Poderico, il quale con varii gradi avea valorosamente combattuto nel Milanese.

Nella notte gli Spagnuoli assaltarono in Napoli il Monastero di S. Maria la Nuova, fortificato dal popolo, facendosi aiutare dai galeotti delle loro galere, liberati dalle catene per tale occasione, ma il popolo, svegliato dalle campane, li respinse. Furono fusi dal popolo due cannoni con le armi della Repubblica.

Il giorno 10 gennaio presero i popolani la città di Nola, e contro i patti della resa, la saccheggiarono, per lo che il Duca di Guisa ordinò che fossero restituite tutte le robe prese, meno i grani.

La severità delle punizioni per mantenere la disciplina continuò, sicché fu fucilato un soldato della Compagnia del Duca di Guisa, accusato d’intelligenza con gli Spagnuoli. Ordinò intanto il Guisa che fossero coniate le nuove monete, cioè le diciotto grana di argento con la leggenda. S. Jan: rege et protege nos 1648, e nel mezzo l’effigie di S. Gennaro, e dall’altra parte l’impresa della Repubblica Napolitana con la leggenda Henr: de Lor: Dux Reip: Neap., il tre tornesi con dall’una parte la impresa della Repubblica e la leggenda come sopra, e dall’altra tre spighe di grano legate con un ramo di olivo con la leggenda Pax et Veritas 1648, il grano con dall’una parte la impresa della Repubblica e la leggenda come sopra e dall’altra una testa con spighe di grano con lo scritto Hinc libertas G.A., il tornese con dall’una parte la impresa della Repubblica, e dall’altra un grappolo d’uva con lo scritto Laetificat 1648 G.A.

Il 15 Gennaio vi fu un combattimento presso Chiaia tra popolo e Spagnuoli.

Il 19 fu ucciso in una scaramuccia D. Ferrante Caracciolo, Capitano del popolo.

Il 20 fu appiccato un popolano per aver insolentito contro l’Eletto del popolo Mazzella.

Il 26, essendo stato dimesso dal posto di Viceré il Duca d’Arcos, D. Giovanni d’Austria fu chiamato a sostituirlo, per lo che in quel giorno prese possesso, tenne ricevimento a Corte e fu fatta la solenne cavalcata secondo l’uso.

Il 1° Febbraio una compagnia di 300 popolani, trovandosi presso Capua, ed avendo bisogno di viveri, fu assicurata da quel Presidio di poter liberamente entrare nella città. Colà entrati e chiuse le porte, furono tutti massacrati.

Il 2 febbraio mentre Giannettino Doria udiva la messa a Pozzuoli, i Galeotti della sua galera gli si rivoltarono e, dato nei remi, presero il largo nè fu possibile di raggiungerli.

L’equipaggio di altra nave detta la Padrona, tentò di fare lo stesso, ma D. Giovanni d’Austria, avvertito a tempo, fece arrestare i congiurati.

Si scoprì intanto nel 4 febbraio una congiura contro il popolo ed in favore degli Spagnuoli, ed alcuni individui, tra i quali un Frate di S. Francesco della famiglia Brancaccio, furono posti ai tormenti: uno di essi fu appiccato.

Il 9 febbraio furono appiccati due popolani, accusati di avere assistito Salvatore Cattaneo allorquando fu ucciso Masaniello.

Il 12 febbraio fu dato dai popolani un assalto a varii posti degli Spagnuoli con la perdita di dugento individui, e senza ottenere vantaggio alcuno. Si protrasse il combattimento fino a notte avanzata, sicché il Guisa , vedendo l’accanita difesa degli Spagnuoli fece ritirare le sue squadre.

II 16 febbraio furono arrestati il Baron di Modena, Spirito di Ramondo Francese, ed il suo confessore Padre Vincenzo Capece Domenicano, e fu tagliata la testa al Barone di Fusco ed a Paolo di Napoli, accusati tutti di voler togliere la vita al Duca di Guisa.

Il 19 fu strozzato un prete per aver rivelato agli Spagnuoli una mina fatta dal popolo, e nel giorno seguente furono decollati D. Salvatore Rosso e D. Antonio de Gennaro, Capi-popolo, e furono condannate alla ruota due persone per avere uccisa una sentinella.

Il 24 febbraio gli Spagnuoli, avendo assaltata una trincea, dopo mezz’ora di accanito combattimento furono respinti.

L’Annese nel 28 febbraio, tentò di muovere i popolani contro il Guisa, ma questi, cavalcando per la città al grido di Viva il popolo, costrinse l’ altro a rinchiudersi nel Forte del Carmine.

Il 1° marzo fu nominato Viceré di Napoli il Conte di Monterey, della qual nomina, essendo tutti i nobili dispiaciuti, fu in sua vece scelto il Conte di Ognatte Guevara che stava in Roma come ambasciatore presso il Papa.

L’indomani mentre l’Ognatte sbarcava dalla galera con la sua scialuppa, gli fu tirata una cannonata dal Forte del Carmine, la quale gli uccise due marinari. Sceso poscia a terra il Viceré, fu fatta la funzione della presa di possesso, nella quale Marcantonio de Gennaro rappresentò le Piazze nobili e Antonio Lombardo, Scrivano di Razione, rappresentò il popolo.

Il 3 marzo si sparse voce che il Re di Francia non proteggeva i regnicoli perchè alla testa di essi trovavasi il Guisa suo capital nemico; la qual cosa, saputasi da questo, cavalcò per la città licenziandosi da tutti.

Dopo due giorni il Guisa mandò in Roma il suo Capitano Agostino de Lieto con cinque feluche, portando colà gran quantità di gioie, gli argenti dell’Annese e 150 mila ducati, le quali cose erano state dal Guisa prese nel Regno.

Giunto in Roma il Capitano Lieto, poco fedele al suo padrone, si appropriò delle ricchezze.

Il 13 marzo fu ucciso per ordine del Duca, Antoniello Mazzella, Eletto del popolo, accusato di parteggiare per gli Spagnuoli. Il suo cadavere fu fatto trascinare per la Città da D. Francesco Console, suo genero, ed il Guisa si prese gli oggetti di valore che quello avea.

Nell’11 marzo fu appiccato Gregorio Calderino, Scrivano dell’Archivio di Napoli, e fu decollato Ignazio Griffone, per avere costui aperta la tomba del Marchese di Torrecuso Caracciolo, valoroso Capitano, e rubata la sua armatura ed un prezioso anello che eravi.

Il 23 marzo fu conchiuso dal Marchese di Montesilvano Vincenzo d’Andrea, da Gennaro Pinto e da altri, di fare uccidere il Guisa per metter termine a tante sciagure. Saputosi dal Duca il fatto, fece tutti arrestare. Quattro furono pubblicamente strangolati, e gli altri furono man mano uccisi di notte e sepolti nella Chiesa di Santa Restituta, meno il d’Andrea che riuscì a nascondersi.

Il 31 marzo fu decollato Francesco de Regina Capitano del popolo, accusato d’aver parteggiato per gli Spagnuoli. E nel 2 aprile per la stessa causa furono decollati Francesco Caleo Colonnello e Marco Pisani. E nel dì 3 fu decollato per la stessa ragione il Capitano di Cavalli Rama.

Il 6 aprile parve giorno decisivo pel termine dello stato anormale in cui Napoli vivea da ben lungo tempo, perchè, trovandosi il Guisa a Posilipo per battere il forte di Nisida, ed essendo venuto in aiuto del Viceré D. Alfonso Monroy con 500 Cavalli, fu risoluto dagli Spagnuoli di dare un assalto generale a quella parte della città posseduta dal popolo.

Guidati dunque gli assalitori da D. Giovanni d’Austria, si mossero a dar l’attacco. D. Emanuele Carafa con 250 fanti comandati da Agazio Assante assaltò la Porta Alba, prese i baluardi di Porta Costantinopoli, ed unitosi a D. Diego di Portogallo che comandava 300 Spagnuoli mandò il Capitano Vargas con 50 soldati ad occupare la casa del Guisa ed a liberare il Duca di Tursi ed il Principe d’Avella, che colà trovavansi prigionieri. La cavalleria era guidata da Prospero Tuttavilla, seguito dai Maestri di Campo D. Alonso Monroy, dal Principe di Avellino Caracciolo, dal Principe di Torella , dal Principe di Valle Piccolomini e dal Marchese di S. Marco Cavaniglia, e poi da una truppa di napoletani.

La retroguardia era comandata da D. Giovanni d’Austria, accompagnata da 50 Gentiluomini napoletani guidati dal Duca d’Andria Carafa ai quali tenea dietro il Conte di Ognatte, seguito dalla Cavalleria dei Borgognoni comandati da Geronimo Tassis, dal Gusman, dal Batteville e da altri officiali e Ministri del Collaterale. Nell’entrare gli Spagnuoli nella parte di città difesa dai rivoltosi, tutti quelli che malvolentieri soffrivano la rivolta si unirono armati ad essi, e gl’insorti, ridottisi al Mercato, vedendosi colà stretti da ogni parte con le artiglierie, deposte le armi, cominciarono a gridare Viva il Re di Spagna.

Fece D. Giovanni chiamare il Cardinale, col quale scambiatesi molte gentilezze, lo pregò di portarsi dall’Annese chè volea con lui trattare della resa del forte del Carmine, dove, in seguito dei patti stabiliti, entrò D. Giovanni, e lasciato un presidio nel Forte, tutti s’incaminarono al Duomo ove fu cantato il Te Deum.

Saputosi l’accaduto dal Guisa, e vedendo non esservi più speranza di ripigliare la città, si ridusse nel Casale dell’Arenella dove, non credendosi sicuro, prese la via di S. Maria di Capua, per portarsi a Roma; e mentre colà si recava fu arrestato dal Tenente Visconti, e, condotto in Capua, donde fu dal Poderico con ogni riguardo mandato nella Piazza di Gaeta.

Il 3 aprile , il Viceré fece arrestare molti Capi del popolo, dei quali varii furono appiccati.

Da quest’epoca si cominciò a godere un poco di pace fino al 4 giugno, giorno in cui comparve la squadra francese, composta di 19 Galere , 54 vascelli e 40 tartane, sotto il comando del Principe Tommaso di Savoia, sicché il popolo si sollevò di nuovo, ed il Viceré fu obbligato di cavalcare per la città confermando le grazie concesse.

Essendo intanto nel 10 giugno venuto a conoscenza del Viceré che l’Annese avea ricevuto delle lettere da Francia, lo fece arrestare con altri molti, sottoponendoli ai tormenti, e le loro case furono saccheggiate dagli Spagnuoli.

Il 15 giugno fu mandato dal popolo un’ ambasciata ai francesi, pregandoli di allontanarsi da Napoli, essendo ormai inutile qualsiasi resistenza contro gli Spagnuoli.

Il 2 luglio furono condannati a morte sedici Capi del popolo tra i quali Gennaro Annese.

Ricomparve l’armata francese nel 5 agosto nelle acque di Napoli, con maggior numero di vascelli, sotto il comando del Principe Tommaso di Savoia, di D. Vincenzo delli Monti Marchese di Acaia. Alle ore 22 si impossessò dell’Isola di Procida, ed il Principe di Montesarchio, feudatario di quella, salvò la vita con la fuga.

Il dì seguente, accostatisi i legni francesi al Forte dell’Uovo, furono loro tirate molte cannonate, ed il Viceré cavalcò per la città, esortando il popolo a prendere le armi in difesa di Sua Maestà Cattolica.

Il giorno appresso i Francesi, chiamati in Salerno da un certo numero di congiurati i quali voleano ad essi consegnare la città, portativisi nel giorno suddetto, furono respinti da D. Francesco Caracciolo Duca di Martina, .il quale unitamente al Duca di Calabritto Tuttavilla ed al Principe di Avellino Caracciolo, sostenne valorosamente un attacco dei Francesi alla città di Vietri, al quale fu poi presa dai Francesi nel giorno 12, pigliandovi 50 mila ducati in oro.

Il 13 agosto tentarono i francesi novellamente di prendere Salerno, ma inutilmente, ed anzi, costretti a lasciare le loro posizioni per imbarcarsi, abbandonarono molte vettovaglie, ed un buon numero di prigionieri, lasciando ai loro partigiani in Salerno la sola Torre dell’Anguillara.

Dopo due giorni, fu mandato dal Viceré un numeroso rinforzo di truppa sotto il comando di D. Dionisio de Gusman Maestro di Campo Generale, di D. Prospero Tuttavilla Tenente Generale di Cavalleria e di D. Luigi Poderico Generale delle Artiglierie, i quali nel giorno 16 obbligarono i francesi a lasciare la città di Vietri, impossessandosi di varii cannoni e di altri ordegni da guerra.

Nello stesso giorno fu scoverto dal Tenente Davide Petagna una congiura, la quale aveva per iscopo la presa del Torrione del Carmine, l’eccidio di gran numero di gentiluomini partigiani di Spagna e l’entrata dei Francesi in Napoli.

Il 24 agosto fu carcerato dal Conte Ercole Visconti Colonnello degli Alemanni al servizio della Spagna, ed un tale Domenico Colessa sediaro, il quale fu arruotato nella piazza del Mercato. Desso durante il tumulto faceasi chiamare Duca di Sessa e Prevosto degli Abbruzzi ma, sedato il tumulto, erasi dato in campagna a rubare con buona mano di malandrini.

Il 1° settembre furono impiccati nel Borgo dei Vergini tre individui e molti furono incarcerati per avere ucciso un tale Onofrio della Croce Scrivano Fiscale.

Il 15 dello stesso mese D. Giovanni d’Austria, avendo deciso di passare in Sicilia per sedare il tumulto di quell’Isola, giurò nel Duomo di mantenere i patti stabiliti col popolo, e nel dì 22, dopo aver fatto grazie a tre condannati a morte, partì per la Sicilia accompagnato dalla flotta.

Il dì 11 novembre il Maestro di Campo Landi si portò dal Viceré a domandare Ducati 1500 in saldo di una somma promessagli dagli Spagnuoli per averli fatti entrare dalla Porta Alba, tradendo il popolo che egli comandava; però invece di essere soddisfatto di una tal somma, fu per ordine del Viceré strozzato. (Ignoriamo se questo Landi appartenesse alla stessa famiglia del Generale Landi che comandava una Brigata nell’ esercito napoletano nel 1860).

Il 1° giugno 1649, fu scoperta una congiura la quale tendeva a far coronare Re di Napoli D. Giovanni d’Austria, non avendo il Re di Spagna legittimi eredi; per la qual cosa furono arrestati D. Andrea d’Avalos Principe di Montesarchio e D. Antonio Maresca Maestro di Campo degli Spagnuoli, il quale fu tormentato per un’ora col poliedro; come lo furono del pari fra Paolo Venato ed il Prior della Roccella Carafa, per ordine della Giunta di Stato, composta di D. Diego Zufia fiscale, del Consiglier D. Biase de Buliaca, di D. Francesco Merlino Presidente del Sacro Regio Consiglio, di D. Diego d’Uzeda Luogotenente della Regia Camera e di D. Benedetto Trelles. Per tal processo molti furono condannati a morte, ed il Carafa ed il Venato mandati in Ispagna.

Agli 8 di giugno furono decollati Ciullo ed Andrea Ricca fratelli, i quali per aver nemico il boia, furono sottoposti ad una morte stentata, per lo che nel 25 aprile il boia, Antonio Sabatini, accusato di aver preso danaro dai nemici dei Ricca, fu appiccato.

Dal giorno 11 giugno al giorno 7 ottobre, furono decollati Peppe Palumbo, Carlo Genzale, Peppe di Palma Capitano di Giustizia, Titta Sparano Capitano di Giustizia, Antonio Maresca, Agostino Mannara e Francesco Mazziotta negozianti, Razzullo de Rosa Carceriere della Vicaria ed un tal Schiavoniello, i quali aveano data la morte al Presidente Cerniamo, Francesco de Patti, Ciccio Guallecchia, ed il Marchese di Montescaglioso Giovanni Grillo genovese.

Fu spianata la casa di Razzullo de Rosa, essendo quella un nido di ladri, nel quale luogo presso la Piazza di Portanova, fu edificata una fontana. Fu chiuso nel forte di Baja Aniello di Falco Generale delle Artiglierie del popolo.

Fu decollato D. Ferrante delli Monti Cavaliere di gran valore, cugino del Marchese d’Acaia.

Nel giorno 19 giugno fu mandato in Ispagna il Duca di Guisa, il quale, dopo un anno di prigionia, fu da Filippo IV posto in libertà col patto di restare nella Corte; ma egli non contento di tal grazia, travestito fuggì; e catturato nelle Fiandre, fu riportato in Ispagna, d’onde dopo non molto fu liberato dal Re col patto che andasse a suscitar la rivolta di Francia.

Il giorno 9 gennaio 1650 fu arrestato il Duca di Maddaloni, il quale comandato dal Conte Ognatte di portarsi in Napoli con gli altri Baroni, vi si era ricusato per tema che il popolo lo uccidesse.

Nel 3 maggio 1650 il Conte di Ognatte, sotto il comando di D. Giovanni d’Austria si portò all’assedio di Portolongone per discacciarne i Francesi, lasciando in Napoli qual luogotenente D. Beltrano Guevara suo fratello.

Il 16 giugno fu preso Piombino dagli Spagnuoli, ammazzando 200 Francesi, e dando il possesso della Piazza al Principe Nicolò Ludovisio. - Fu decollato Carlo d’Acampora Dottore in Medicina per avere avvisato i Francesi di quanto si facea in Napoli.

Nel 15 agosto 1650, i Francesi resero a patti la Piazza di Portolongone a D. Giovanni d’Austria.

Ritornarono in Napoli nel 21 agosto D. Giovanni ed il Viceré, rimanendo il primo fino al novembre 1653.

Si seppe da D. Garzia de Avellaneda Conte del Castrillo, successo all’Ognatte nella carica di Viceré, che da Francia era partita alla volta del Regno una forte squadra, e ciò ad istigazione del Duca di Guisa, il quale avea assicurata al Re di Francia la conquista delle Due Sicilie, per lo che il Castrillo si apparecchiò alla difesa.

Il 1° giugno 1654 fu creato Capitan Generale D. Carlo della Gatta, facendo Piazze d’Armi le città di Sessa e Teano. Furono mandati 2000 uomini al Granduca di Toscana alleato del Re di Spagna. Fu appiccato un prete di Sessa quale spia dei Francesi. Fu domandato dal Cardinale Barberini, partigiano di Francia, al Pontefice Innocenzo X il permesso di far passare per i suoi stati tremila cavalli dei Francesi; ma il Pontefice, essendosi negato, il Barberini rispose che sarebbero quelli passati per forza, per lo che Innocenzo X ordinò che niuno dei suoi sudditi avesse prese le armi in favore dei Francesi e che si opponessero con la forza al passaggio di quelli per i suoi stati.

Intanto il Guisa con sette vascelli di alto bordo, con quindici più piccoli, sei galere e sei tartane, con sette mila fanti e 200 cavalli, uscì dal Porto di Tolone ai 5 ottobre 1654. Ma, presi da un forte temporale, alcune delle navi furono spinte nelle acque di Malta dove furono ricevute a colpi di cannone, scolpandosi quei Cavalieri che aveano tale capitolazione da non poter dare asilo a nessuno. Però, avendo le navi francesi protestato, fu per ordine del Gran Maestro carcerato il Comandante del Forte, ed il bombardiere appiccato. Dopo di che i Vascelli, riunitisi al grosso della flotta, comparvero nel golfo di Napoli il giorno 11 novembre 1654.

L’indomani uscirono da Baia quindici galere per affrontare i Francesi, ma il tempo cattivo le obbligò a rientrare nel Porto. Il popolo intanto cominciò ad insorgere di nuovo, per la qual cosa il Viceré, accompagnato da D. Michele Pignatelli e da molti altri Signori, cavalcò per la città, rassicurando i popolani.

Il dì seguente mandò il Guisa a chiedere la città di Castellammare a Girolamo Amodeo Governatore di quella, il quale gli fece rispondere di tenerla pel Re di Spagna, e temendo di un prossimo assalto , chiese soccorso a Salerno, donde gli fu inviato il Generale Frangipane con le sue truppe.

Il dì vegnente il Guisa fece sbarcare quattromila soldati sotto la scorta di Gennaro Cirillo napolitano, e dopo ripetuti assalti, il giorno i 5 alle ore 9 di notte s’impossessarono di Castellammare. Entrò il Guisa nella città con gran pompa e, recatosi al Duomo, fu cantato il Te Deum. Emanò severissimi ordini acciò fossero rispettate le proprietà e le donne. Obbligò un soldato che avea contaminato una bruttissima vecchia a sposarla, e fece stampare un passaporto per quelli che voleano uscire dalla città con la seguente intestazione: «Enrico di Lorena Duca di Guisa, Conte d’Eu, Pari di Francia, Viceré e Capitan Generale del Regno di Napoli pel Re Cristianissimo».

Il 17 novembre i Francesi assaltarono Gragnano difesa dal Conte di Celano, ma ne furono respinti. Sbaragliarono varie compagnie di Spagnuoli presso Scafati, e comandati dal Guisa, si portarono a Torre Annunziata. Accorsi colà il Conte di Celano e D. Alonso de la Puerta con molte compagnie di Spagnuoli, s’impegnò.una sanguinosa mischia nella quale morirono 150 francesi lasciando 200 prigionieri e gran quantità di feriti; poscia, mentre si ritiravano in Castellammare, furono assaliti dal Principe di Castellaneta Cesare Miroballo e dal Marchese di Torrecuso Caracciolo, dai quali, per essere presi alla sprovvista, furono completamente battuti.

Nel furor della mischia il Miroballo, inseguendo il signor du Plessis, inoltratosi tra i francesi, fu fatto prigioniero.

Restò prigioniero degli Spagnuoli il Maresciallo di Campo Gonzaga dei Duchi di Nevers, il quale, essendo stato preso pel Guisa, i soldati di Spagna misero grida di gioia. Dopo qualche ora saputasi la nuova a Napoli, il Viceré si portò presso il Ponte della Maddalena per ricevere i vincitori, e sentendo che venivano in una carrozza il Gonzaga, Monsignor degli Oddi, Maresciallo di Campo, Monsignor di Draganiche e Monsignor di Riballiere, nel vederli si alzò e parlò loro col capo scoperto; dopo di che, fattili salire in una carrozza di Corte, li fece accompagnare da molti ufficiali nel Castelnuovo.

I Francesi vedendo di non essere spalleggiati, e sicuri di non poter resistere nella città di Castellammare, ne saccheggiarono le case, e giunse a tanto l’ingordigia di quelli, che molti cittadini rimasero nudi. Per tal fatto il Duca di Guisa fece impiccare alcuni suoi soldati che si erano spinti di più nella rapina.

II di 20 novembre quaranta Francesi, allettati da varie promesse fatte dal Viceré, deposte le armi si dettero al Campo Spagnuolo.

Lo stesso giorno si arrenarono presso la Riviera di Chiaia due navi francesi, la cui roba fu restituita dal Viceré al Guisa. Circa 400 Francesi nel giorno 24, non essendo più pagati dal Guisa, lo abbandonarono, per lo che questi, vedendosi alle strette, abbandonò la Piazza inchiodandone le artiglierie.

Il giorno 10 dicembre, i Francesi prima di salpare per la Francia, rinviarono alla Città di Castellammare tutti gli oggetti preziosi involati alle Chiese; cosi lasciarono, senz’alcun vantaggio, il Regno, avendo perduto 1500 uomini, due vascelli e due tartane.

Il 23 dicembre 1654 vennero nel golfo molti vascelli inglesi, noleggiati dal Re di Spagna, e che, non trovando i Francesi, munitisi di viveri ripartirono.

Si seppe intanto il 3 giugno 1655 la morte del Papa Innocenzo X , Giov. Battista Pamphili, tenuta celata per molti giorni per ordine di Donna Olimpia Maldalchini sua cognata, per favorire alcuni interessi della Spagna. Poscia avendo un astrologo, tal D. Paolo Cucurullo, prognosticato di dover succedere nel Pontificato il Cardinal Filomarino, questi partì per Roma accompagnato da una galera datagli dal Viceré.

Il 30 gennajo tornò in Napoli il Prior della Roccella, e fu liberato il Principe di Montesarchio, il quale andò a servire D. Giovanni d’Austria.

Nel 18 febbraio 1656, furono mandati nel Castello di Capua 225 prigionieri francesi, perchè, affetti da malattia contagiosa, avevano ammorbate le carceri della Vicaria; poi guariti dopo quatttro mesi, furono incatenati sulle galere per ordine del Re, avendo i Francesi fatta subire la stessa sorte a trecento Spagnuoli.

Il 7 aprile 1656 fu eletto Papa Fabio Ghigi, sotto il nome di Alessandro VII.

Nel 20 maggio furono mandati rinforzi a Milano al Marchese di Caracena per far guerra al Marchese di Modena, il quale, per parentela ed amicizia con i Cardinali Mazzarino, Barberino e Grimaldi, erasi dichiarato di parte francese.

Il 3 giugno 1656 ritornò in Napoli il Cardinale Filomarino e furono mandati 1200 cavalli in aiuto della città di Pavia stretta d’assedio dai Francesi.

Così questa rivoluzione, cominciata sotto auspicii i quali facevano supporre la completa cacciata degli Spagnuoli dal Reame di Napoli, avrebbe partorito effetti e dato luogo ad avvenimenti politici di cui non è possibile valutare l’importanza; ma le arti di un accorto Viceré pronto a far nascere discordanza fra i nobili e i popolani; l’accorgimento del Toraldo e del Genoino, atti a secondare i Consigli del Viceré Duca d’Arcos ed abili ad ingannare il popolo affin di fargli abbandonar la via scelta che menava, per conseguenza, all’acquisto di dritti e privilegi per parte del medesimo popolo, i quali certo non potevano andare a sangue di chi avea fra le mani il supremo reggimento; tutto ciò mise in moto le differenti passioni degli uomini e fece nascere delle lotte le quali, come suole avvenire il più spesso, tornarono a vantaggio di coloro che alla astuzia accoppiarono la solidalità ed il compatto accordo, facendo succombere il partito di quelli che, per condizione loro speciale, son destinati ad essere raggirati da chi presta l’autorità di un nome e il prestigio d’una posizione sociale.

Abbiamo creduto utile ripetere la tanto nota Rivolta del Maso Aniello Amalfi, onde ricordare alcuni particolari che riguardano per la maggior parte private famiglie, taciuti da’ num erosi Autori, che ne hanno scritto. - L’Autore


Tratto da: Candida-Gonzaga, Memorie delle famiglie nobili, Napoli 1836, Vol. II. Pag.145 e seguenti - LINK